domenica 28 dicembre 2014

Recensione Confessions

Ok, mi sono presa di giorni di tempo per matabolizzare Confessions di Kanae Minato. Se attendo altri due giorni per scriverne non lo farò più. Il motivo è semplice: è stata una lettura toccante, ma al contempo dolorosa e molto triste e ciò rende difficoltoso parlarne. 
Poi, per farmi ancora più male, ho deciso di guardare anche il film che, sebbene sia molto bello, non riesce – secondo me – a trasmettere le stesse scioccanti emozioni del libro. Interessante, molto interessante, ciò che la Minato racconta della società giapponese che mi porta a dire che ho letto troppi pochi libri sul Giappone e devo quindi, necessariamente, recuperare.
Un consiglio: leggete giusto un paio di righe della trama, senza andare troppo oltre. Io ho fatto così e scoprire il nome del colpevole attraverso il libro e non attraverso la quarta di copertina è stato davvero moooolto meglio.

Titolo: Confessions
Autore: Kanae Minato
Editore: Giano (Neri Pozza)
Pagine: 270
Prezzo: 14,90 €
Il mio voto: 4 piume e mezzo

Trama

La rivelazione è di quelle agghiaccianti, soprattutto se a farla è una giovane professoressa che ha da poco perso la sua bambina e ad ascoltarla sono i suoi alunni, la classe alla quale Moriguchi Yuko rivolge un discorso di addio: "La mia Manami non è morta accidentalmente; è stata uccisa da qualcuno di voi". La figlia dell'insegnante di scienze aveva quattro anni quando, un mese prima della fine dell'anno scolastico alla scuola media, in una cittadina del Giappone, è stata trovata morta nella piscina dell'istituto. A causa di quello che tutti hanno ritenuto un incidente, la madre ha deciso di abbandonare per sempre il suo lavoro. Freddamente, quasi scientificamente definendoli A e B, la professoressa rende identificabili ai compagni i due ragazzi e rivela la sua scoperta di come essi abbiano premeditato e compiuto l'omicidio di una bambina indifesa. Inoltre, con altrettanta freddezza, l'insegnante comunica la sua decisione: non ha intenzione di denunciare i due assassini alla polizia. Ha invece già messo in atto una personale vendetta, atroce e immediata ma escogitata in modo che le devastanti conseguenze si manifestino lentamente, affinché i giovani criminali abbiano il tempo di pentirsi e trascorrere il resto dei loro giorni sopportando il fardello della colpa di cui si sono macchiati. Nelle settimane successive, attraverso un diario, un blog, una lettera, appare in tutta la sua spaventosa portata il perché del gesto compiuto da Nao e Shuya.  


La recensione

Riesce difficile parlare di un libro così, gli spunti di rilfessione sono numerosi e strazianti e, tra le altre cose, offre uno spaccato della società nipponica così crudo e, mi tocca ammettere, reale che scuote incredibilmente e fa accapponare la pelle.
Chi conosce il mondo giapponese, anche solo in parte, è anche a conoscenza dei tristi fenomeni che lo riguardano e che includono, purtroppo, la scarsa presenza delle figure genitoriali nella vita degli adolescenti, il rigido sistema scolastico e della scoietà e l'elevato tasso di depressione e suicidi adolescenziali. Kanae Minato racconta una tragedia e lo fa senza tralasciare una forte denuncia verso un sistema – quello giapponese, appunto – malato, guasto e perverso, fortemente volto all'individualità e quasi del tutto privo di empatia.
Confessions racconta la storia dell'omicidio di Manami, una bambina di appena quattro anni figlia della professoressa Moriguchi. La trama è molto semplice: già nel corso del primo capitolo, infatti, Kanae Minato rende noti il movente dell'omicidio, il modo in cui si è consumata la tragedia e il colpevole. È interessante che l'autrice abbia scelto di raccontare la vicenda ogni volta da un punto di vista differente, narrando gli stessi fatti – naturalmente con delle aggiunte – ora attraverso le parole di Moriguchi, ora attraverso quelle delle altre persone coinvolte nella tragedia. 
Interessante perché, insieme al punto di vista, cambia l'opinione che il lettore si è costruito di quel personaggio. Leggendo la storia vista gli occhi della madre di Manami si ha l'impressione che i fatti si siano susseguiti in un certo modo e ci si lascia influenzare dall'idea che la professoressa ha dei colpevoli. Passando al punto di vista successivo, ciò che si era immaginato cambia del tutto, insieme all'opinione che ci si era costruiti di un personaggio, colpevole incluso.
Un romanzo complesso che lancia un messaggio per certi versi allarmante. Pesante e difficile da metabolizzare, oltre che assurdamente doloroso, colpisce dritto al cuore ma anche e soprattutto alla mente. 
Al cuore perché la morte di una bambina e il dolore che prova una madre dopo una simile tragedia non è nemmeno immaginabile, soprattutto se il movente di tale tragedia risiede in un freddo e spaventosamente razionale desiderio di individualismo. E alla mente, più del cuore, perché il pensiero che tali atrocità vengano commesse da degli adolescenti scuote persino le ossa di chi legge. 
Ancor più agghiacciante e, in un certo senso, straziante è constatare quanto disastrosa sia la situazione psicologica dei giovani giapponesi. Leggendo alcuni tratti si resta interdetti, storditi come se qualcuno ci avesse appena sferzato un pungo in faccia e riesce quasi impossibile comprendere appieno come sia possibile che ragazzi di tredici anni ragionino già sulla possibilità non solo di togliere la vita ad altri, ma di toglierla a loro stessi. 
La struttura narrativa, inoltre, merita particolare attenzione non solo perché costituisce una piccola finestra sul punto di vista di ognuno dei personaggi rilevanti, ma anche perché l'intero romanzo è composto da sei lunghi monologhi. E, per ogni monologo, l'autrice utilizza un mezzo diverso: una lettera, un diario personale, una telefonata.
Bella e straziante al contempo, è certamente una lettura che fa riflettere e, per questo, mi sento di consigliarla soprattutto agli amanti della letteratura giapponese.

lunedì 22 dicembre 2014

Del perché leggo i libri brutti, atto secondo

Del perché leggo (e, di conseguenza, recensisco) i libri brutti. In molti me lo chiedono. Scrivendo il post per 40 secondi (qui) mi sono resa conto che, in effetti, non ho mai spiegato il motivo per cui lo faccio. Quando qualcuno, un impavido, mi fa questa domanda rispondo sempre a grandi linee, senza mai entrare nel dettaglio. Potrei dire, per semplificare, che un po' c'entra il masochismo, ma non è del tutto vero. 
Sì, so perfettamente che la vita è troppo breve e i libri belli così tanti che non basterebbero 100 anni per poterli leggere tutti e allora, perché perder tempo con le sòle? Il motivo è un po' complesso. 
A parte le rarissime volte in cui mi lascio prendere dallo sconsiderato ottimismo che mi si confà, la maggior parte delle volte mi approccio al libro brutto (e con ciò intendo oggettivamente brutto) con consapevolezza, convinzione, ironia e soprattutto sadismo. Tanto, voglio dire, la ricerca del titolo da leggere non è mai troppo complicata e non richiede riflessioni di alcun tipo. Cioè, al massimo le richiede postume, le riflessioni, e sono sempre di carattere esistenziale sul futuro della gente che legge quella roba, la trova bella e poi affronta il mondo. Andando a votare, per esempio. O anche solo facendo la spesa o, ancora peggio, guidando.
Anyway, il libro brutto lo si riconosce subito, è quello lì che è già brutto dalla copertina, quello il cui progetto grafico è stato fatto dalla vostra insegnante di religione delle medie, quello che ha persino il titolo brutto. Ebbene, il libro che voi non leggerete mai, nemmeno sotto tortura, per me ha un fascino inspiegabile. Vengo attirata, ipnotizzata addirittura, dal brutto. Quel brutto che presenta una tale, immensa quantità di brutto che è quasi bello. Avete presente l'effetto animalier? Non sono una sostenitrice dell'animalier, per me qualunque cosa sia leopardata, ghepardata, tigrata o giraffata (alle volte anche muccata) dovrebbe essere sequestrata e fatta sparire dalla faccia della Terra, per essere poi radunata in enormi, mostruose pile e incendiata in una notte di luna crescente.
Ma, dicevo, l'animalier ce l'avete presente? Ecco, c'è animalier e animalier, anche se io nutro antipatia anche per il giusto animalier. Quando trovate l'animalier più brutto e coatto che possiate immaginare, quella fantasia tipo ghepardo ma con sfondo lilla e macchie rosa, ad esempio, non vi trovate a guardare l'oggetto in questione con insistenza, come se ne foste ipnotizzati? Pensateci. Addirittura vi avvicinate al capo d'abbigliamento mostruoso, lo guardate per osservarlo meglio, lo toccate persino. Ecco, questo, signori miei, è il grandissimo potere del brutto. Sì sì, è il fascino che il brutto ha sulla gente dotata di buonsenso. Proprio quel tipo di fascino che vi fa domandare come sia possibile la contemporanea esistenza di entrambi, voi e l'oggetto muccato rosa shocking, sulla Terra.
E con me, che sono una persona sensibile e dal cuore puro, questo stesso potere ce lo hanno anche i libri. Sono una debole e, per questo, nella lotta – ìmpari mi tocca dire – vince il libro brutto. A quel punto devo necessariamente procurarmelo per approfondire, per capire veramente il motivo per cui entrambi ci troviamo su questo pianeta.

martedì 16 dicembre 2014

Recensione Portami a casa

Rieccomi, con un post che non sia random (strano, ma ultimamente parlo a vanvera troppo spesso). Dunque, rieccoci qui riuniti per disquisire di Portami a casa di Jonathan Tropper, edito da Garzanti e dal quale è stato tratto un film. C'è da dire che avevo immaginato tutti molto diversi da così come appaiono in carne e ossa nel trailer ma, cioè, sono i rischi del lettore. 
Terminato da qualche giorno ormai, ve ne parlo solo adesso perché... Non lo so perché. Il romanzo è carino, si legge velocemente e regala qualche sorriso, ma. Sì, c'è un punto dopo il ma. Fa Baricco in Oceano mare, avete ragione (o forse fa Baricco sempre? Non so, ho letto solo Oceano mare), è che è proprio così. È una lettura carina, leggera e simpatica ma. Come se mancasse un quid, ecco. E quel ma seguito da un punto esprime appieno la mia opinione. 
Vi spiego meglio perché.

Titolo: Portami a casa
Autore: Jonathan Tropper
Editore: Garzanti
Pagine: 364
Prezzo: 9,90 € (la cover accanto è quella del formato ebook)
Il mio voto: 4 piume meno

Trama  

Alcune famiglie possono diventare tossiche, se ci si sottopone a prolungata esposizione. E la famiglia Foxman, in particolare, può raggiungere un livello di tossicità letale. Ecco cosa sta pensando il trentenne Judd Foxman mentre, di fronte al suo piatto di salmone e patate, cerca di estraniarsi dalle urla dei nipotini. Il telefono del cognato non smette mai di squillare, la sorella non fa che scoccargli frecciatine acide, in combutta con il fratello minore, mentre la madre, stretta in un vestito troppo provocante, gli rivolge solo sguardi di commiserazione. L'unico desiderio di Judd è scappare lontano e non pensare più a tutti i guai della sua vita. Perché Judd è senza casa, senza moglie, che l'ha appena tradito con il suo capo, e ora anche senza più un padre, morto all'improvviso. Per questo è dovuto tornare a casa e non può fuggire. Le ultime volontà del padre richiedono che venga celebrata la Shiva, il periodo di lutto prescritto dalla religione ebraica: per sette giorni consecutivi tutta la famiglia dovrà riunirsi sotto lo stesso tetto. E sette giorni possono essere un tempo infinito, soprattutto se i componenti della famiglia sono tutti fuori di testa e non riescono a stare per più di ventiquattr'ore insieme senza scannarsi. Ne bastano molte meno perché la casa diventi una polveriera pronta per esplodere a causa di vecchi rancori, passioni mai sopite e segreti inconfessabili.  
La recensione 

Portami a casa, il cui titolo per l'edizione italiana poteva essere scelto in modo migliore, racconta la storia della famiglia Foxman attraverso la voce di Judd che, negli ultimi mesi, sembra aver perso tutto ciò che gli è più caro: la moglie – la quale ha intrapreso una relazione extraconiugale con il capo di Judd –, il padre – che dopo una lunga malattia è finalmente passato a miglior vita – e il lavoro (per evidenti problemi logistici).
Si ritrova così, a trent'anni suonati, non solo a non possedere più nulla ma anche a pagare l'affitto per vivere, da solo, in una casa ridicola e fatiscente.  
In occasione dei funerali del padre, Judd si reca nella casa nella quale è cresciuto e si ritrova a dover rispettare la Shiv'a, così come indicavano le utlime volontà del defunto padre.
Grazie alla Shiv'a, della durata di una settimana, la famiglia Foxman sarà costretta a riunirsi sotto lo stesso tetto e ad affrontare vecchi dissapori, a superare stupidi conflitti adolescenziali e a ricordare i bei tempi andati.
È il primo libro di Tropper che leggo e probabilmente non sarà l'ultimo. Ho molto apprezzato la semplicità con cui l'autore racconta un lutto e una vita fatta di perdite e privazioni (quella di Judd, appunto, protagonista sfigato della storia), trasformando le brutte esperienze in motivo di rinascita. 
Sui generis, ma non surreali e improbabili – come invece mi è capitato di leggoere qua e là su internet – le vicende della famiglia, i rapporti ambigui che legano un componente a un altro.
Non so la gente comune, il lettore medio, a quali famiglie è abituato ma se gli raccontassi la storia della mia di famiglia – che non ha un happy ending come in molte saghe famigliari perché, voglio dire, un romanzo deve anche intrattenere non deprimere all'ennesima potenza – direbbe anche a me che le vicende vissute sono surreali. Peccato che, nel mio caso, non possono essere improbabili.
Questo semplicemente per dire che no, le vicende narrate da Tropper non sono affatto improbabili ma sono, se vogliamo, tipiche delle famiglie numerose. Ammetto che, però, probabilmente la sensazione di improbabilità e assurdità deriva dal linguaggio utilizzato dall'autore e dalla struttura narrativa; è palese già dalle prime pagine che Tropper strizza l'occhio al cinema e, infatti, il film tratto dal libro uscirà a breve in Italia – è uscito negli Stati Uniti a settembre. A me questo aspetto, piuttosto che far apparire le situazioni strane e inverosimili, ha disturbato perché ha reso tutto meno introspettivo di quanto invece avrebbe potuto essere. Ecco il quid di cui si sente la mancanza. Un romanzo leggero, divertente e scorrevole ma che manca della profondità giusta in alcuni punti che, invece, vengono risolti frettolosamente e senza dar spazio a riflessioni più complesse.
Questo perché con l'ausilio fornito dalle immagini e dall'espressività degli attori, molti aspetti  possono non essere resi evidenti necessariamente attraverso i dialoghi o le riflessioni. Peccato, però, che per dare spazio al linguaggio e alla struttura cinematografica, Tropper si sia dimenticato che stava scrivendo un romanzo e non una scenografia e che, quindi, il lettore non avrebbe potuto rifarsi alle espressioni del volto dei personaggi.
Insomma, una lettura interessante per certi aspetti, leggera e coinvolgente ma, detto tra noi, mi aspettavo qualcosa di più che, però, non è mai arrivato. 

mercoledì 10 dicembre 2014

Sopravvivere a Più libri più liberi 2014 senza macchiarsi di omicidio ed esperire sdoppiamenti di personalità

E salve!
Sono sopravvissuta a Più libri più liberi, sebbene l'esperienza mi abbia messo a dura prova. Quest'anno mi sono recata in fiera praticamente tutti i giorni, una roba che nemmeno i più duri e i più atletici riuscirebbero a superare senza riscontrare qualche problema fisico e, credetemi, anche psichico. Fisico perché in fiera, se vuoi sederti, devi occupare abusivamente delle seggiole durante presentazioni e dibattiti ai quali magari non sei manco interessato ma, hey, è una sedia vuota quella?!
Oppure devi andare al bar, dove puoi sederti per cinque minuti esatti – prima che qualcuno ti si sieda in braccio – per consumare un orrido e bruciato caffè in barattolino (sì, esatto, sembra proprio un barattolino) di plastica.  Passare, tra l'altro, più di un paio d'ore in un luogo artificialmente illuminato, affollato e caldo crea, secondo me, una serie di problemi alla vista che causano allucinazioni, come minimo. È il motivo per cui la gente si perde dentro Ikea, pensateci. A un certo punto, probabilmente, si è convinti di essere da un'altra parte, di aver intravisto un cerbiatto sulla neve o, ancora meglio, una passaporta e invece... Invece niente, sei sempre al Palazzo dei Congressi e non riesci più a trovare il Caffè Letterario. Succede anche ai migliori. Succede anche al Lingotto, ovviamente, anche se lì le allucinazioni sono rese più pericolose dalla temperatura desertica che causa anche una forte disidratazione. 
Ma, dicevamo, un resoconto. Ho notato, con dispiacere, che rispetto agli altri anni il numero di persone che si è recata in fiera è diminuito drasticamente. Mentre le altre volte non ci si riusciva nemmeno a muovere per i corridoi, quest'anno non ho nemmeno fatto la fila per andare al bagno (e questo rappresenta forse il dato più indicativo. C'è più fila all'autogrill e il numero di bagni è pressappoco lo stesso). Questo, da un certo punto di vista, ha i suoi vantaggi ovviamente. Se c'è meno gente che sgomita e non si lava – credetemi, è pratica piuttosto comune non lavarsi e andare in giro a provocare conati di vomito alla gente – c'è meno rischio di esperire stati allucinatori e si ha più tempo per chiacchierare con gli editori. Che è, più o meno, quello che ho fatto io. Per questo è stato piacevole girare tra i banchetti, smontare completamente quello di Sur sotto lo sguardo vigile e un po' troppo attento del Sur-dipendente che, ecco, non voglio sapere cosa ha pensato (qualcosa di brutto, sono sicura, ma è stato educato e – sebbene il suo sguardo parlasse chiaro – non ha proferito parola); è stato bello saccheggiare il banchetto delle Edizioni Spartaco, dove ho prima acquistato un libro e poi, non contenta, ci son tornata per prenderne altri due; è stato interessante venire a conoscenza di un nuovo modo per gestire una fila di persone che cercano di farsi autografare il libro da Zerocalcare: nessun metodo.

mercoledì 3 dicembre 2014

A Natale in libreria, ovvero tutto ciò che non vorresti trovare sotto l'albero

È dicembre, quindi da adesso in poi verremo sommersi di post, articoli, email sui libri da acquistare a Natale e i libri da regalare. Noi, qui in casa Nereia, francamente ce ne infischiamo dei 101 libri da regalare a Natale, del miglior romance di sempre che scalda il cuore mentre fuori nevica (fa molto Natale, ammettiamolo), della ricetta dei biscotti allo zenzero a forma di fiocchi di neve, delle palle ecologiche da attaccare all'albero, del modo più natalizio che c'è per confezionare i regali, delle decorazioni bianche e rosse fai da te utilizzando solo ed esclusivamente tubetti di Rio Mare Paté e la sabbietta per lettiera.
A me del Natale non frega poi molto, l'alberello sarà un decennio che non lo faccio, il presepe ancor di più. Mia madre decise di non imbarcarsi più nell'impresa quando capì che sostituire i Re Magi con i mini sofficini e le Micro Machines per me non costituiva solo una sfida all'autorità religiosa, ma lo facevo anche perché trovavo in quel modo il presepe più colorato, originale e divertente.
Detto tra noi, preferisco la Pasqua e solo perché posso uccidermi di cioccolata senza sentirmi in colpa. Coff, dicevamo, il Natale.
Del Natale mi importa il giusto, mi piace piuttosto quello che vedo in giro. Mi piacciono le luci che colorano Roma, che è bella da mozzare il fiato sempre, ma che sotto Natale diventa incantevole. Mi piace il cielo su Roma nel mese di Dicembre che è così blu che si ha l'impressione di camminare con sopra il vuoto. Lo so che è una di quelle frasi da romanzetto alla Clare ma, credetemi, è proprio così.
Del mese di Dicembre e dell'arrivo del Natale imminente, comunque, mi piace soprattutto una cosa: le uscite in libreria. Sì sì, proprio quelle che poi vi consigliano di comprare o regalare.  Mi piacciono perché, dannazione, sono veramente oscene. Sono così oscene da rimanere impresse nella mia memoria fino al Dicembre successivo.
Perché, vedete, a Natale si cerca di sfornare quanto più è possibile per potersi accaparrare più lettori/non lettori possibili e, quindi, ci si butta in mezzo chiunque nella mischia pur di alzare qualche soldo che serva, almeno, per pagare la tipografia. Tipo questo libro qui che ci consiglia di lasciarci andare all'ammmmore e tutto verrà da sé (certo certo). E poi, va' che copertina! Lo regalerei per Natale solo per le pallette a forma di cuore made in Ikea. 
Ma non si possono vomitare sugli scaffali delle librerie solo libri ambientati a Natale con protagoniste persone che amano il Natale e che trovano l'amore solo a Natale. C'è sempre bisogno del nome grosso, quello che ti piazzo in enormi, traballanti pile all'ingresso, con un bel cartello con su scritto "NOVITÀ" in cima... Quel libro di cui, davvero, nessuno sentiva la mancanza ma che, invece, puntuale come i treni in Germania e piacevole come l'influenza gastrointestinale si palesa in libreria tra novembre e dicembre.

giovedì 27 novembre 2014

Ciarlando allegramente di... #11

È il caso che ammetta di avere quasi trent'anni e di non essere più il giaguaro di una volta. Non che io sia mai stata ginnica o abbia mai avuto una prestanza fisica alla olio Cuore, sia chiaro. Potrei affermare, con quasi un po' d'orgoglio, di essere nata già vecchia dal punto di vista fisico. Certo, tra i diciotto e i venticinque anni ho fatto il mio mucchietto di ragazzate (ma 'sto termine lo usa qualcuno sotto i settant'anni, oltre a me s'intende?) che includevano notti brave, ore piccole e tanta altra roba di questo tipo, ma sempre nella giusta dose. Cioè, non che lo facessi ogni settimana, ecco. Poi, niente, raggiungi i ventinove anni e boh, il tracollo fisico ti sorprende così, da un giorno all'altro. E quindi vi scrivo dalla mia polverosa, semibuia e incasinata postazione in preda a un malessere generale che non so manco io da dove viene. Ma ho la tisana con me, un termometro (non so se serve ma lo tengo lì), un paio di bustine di Riopan Gel (eh, la gastrite è un regalo di quelle notti brave mi sa) e tantissime altre cose che si divertono a sostare sulla mia scrivania senza apparente motivo (penne, matite, un'agenda del 2013, quaderni, fazzoletti, una collana, cuffiette rotte, un elastico per capelli, mucchietti di polvere).
Quindi, sono qui per parlarvi di Manuale di danza del sonnambulo di Mira Jacob, di prossima pubblicazione per Neri Pozza (ormai lo sapete, lo dico sempre, ho pure messo l'immaginetta in basso a sinistra, faccio parte del Neri Pozza Bookclub ed è per questo che ricevo alcuni volumi di prossima pubblicazione da leggere e recensire in anteprima. Lo dico ché, insomma, non si sa mai).

Non sono certa di ciò che sto per scrivere, semplicemente perché Manuale di danza del sonnambulo è un libro strano. Strano in senso positivo però. 
Senza pensarci troppo, così su due piedi, mi verrebbe da dire che questo è un romanzo che parla di attaccamento. Attaccamento alle proprie radici, alla propria cultura, ai propri affetti, alla propria famiglia, alla vita. 
Scritto in maniera deliziosa, Manuale di danza del sonnambulo affronta temi molto attuali come la morte – presente fin dall'inizio del romanzo –, l'amore per la propria terra e le proprie origini, il desiderio di sentirsi parte di qualcosa, la solitudine.
Protagonista del romanzo è la famiglia Eapen, che si trasferisce dall'India al New Mexico alla fine degli anni '70, portando con sé una buona dose di "indianità". Be', sulla carta la protagonista del romanzo è la famiglia Eapen perché, per me, è come se questo libro parlasse di "Amina e la sua famiglia". Non so spiegare bene perché, ma la sensazione che ho avuto fin dalle prime pagine e che mi sono portata dietro fin quando non ho letto l'ultima pagina, è che la storia sia narrata sì in terza persona, ma attraverso gli occhi di Amina. Amina è travolgente, apprensiva, dolce, a volte forse un po' insicura ma così ben delineata che l'unico aggettivo che mi viene in mente per descriverla è "bella". Amina è decisamente bella, e non nel mero senso del termine, lei è bella dentro ma non è consapevole di esserlo.
Mi scuso per l'entusiasmo che non mi permette di essere non solo oggettiva, ma anche capace di scrivere qualcosa dotato di senso ma devo essere onesta, credevo fosse un altro tipo di romanzo. Mi aspettavo di leggere un romanzo che trattasse le diversità culturali che condizionavano, nel bene e nel male, la vita dei protagonisti; mi aspettavo di trovare, forse, una sorta di romanzo di formazione, fortemente influenzato dalle difficoltà di sentirsi indiani in America. Mi aspettavo di trovarvi, all'interno, delle forti crisi d'identità che rendevano questo un libro sul fenomeno dell'immigrazione. Con mia grande e piacevole sorpresa, invece, non è stato così.   
Ho letto con piacere queste cinquecento pagine e il merito va soprattutto alla bravura della Jacob che ha saputo caratterizzare molto bene i personaggi, utilizzando una cura al dettaglio così minuziosa da sfiorare quasi l'ossessione. Ho trovato molto interessante e ben utilizzata la scelta di parlare del cibo per narrare dell'India e per descrivere Kamala, la madre di Amina. Kamala è il personaggio che, dopo Amina, mi ha colpito di più. Attraverso il cibo esprime se stessa e le proprie emozioni – letteralmente – utilizzandolo come offerta di pace dopo un litigio, cucinando sia nei momenti tristi che in quelli particolarmente felici, usufruendone per colpire qualcuno che l'ha fatta arrabbiare.
Una lettura piacevole e sorprendente, un libro che mi sento caldamente di consigliare.

E bon, basta, questo è un libro bello. Punto. E io i libri belli non li so recensire, lo sapete già. Non a caso sono specializzata in libri brutti.

martedì 11 novembre 2014

Francamente me ne infischio #6



E salve miei affezionati (??) lettori!
Ieri giornata intensa, sono stata a Milano alla Fiera del Franchising per constatare, con amarezza, che quasi tutto è fuori dalla mia portata. Be', c'è da dire che non c'erano proprio tutte le aziende che mi aspettavo ma vabbè, tralasciamo. E niente, ho finito già da qualche giorno il fantasticherrimo :ironia: secondo libro della serie Shadowhunters della nostra cara amica Cassandra Clare. 
Quindi, il primo volume (di cui vi avevo parlato qui), non mi aveva poi così tanto convinta e ci avevo messo anche diverso tempo a terminarlo, colta da improvvisi attacchi di sonno durante la lettura della parte centrale. Ma, tant'è, noi qui si è fan dei libri brutti e quindi, armandomi di coraggio e buona volontà, si è letto anche Shadowhunters. Città di cenere. E, se entro il 2020 riuscirò a trovare la stessa dose di coraggio, ma anche la metà eh, leggerò pure il terzo. Ché, si sa, una volta che inizio qualcosa devo portarla a termine. A meno che questa cosa non porti a evidenti problemi fisici e/o psichici.
Mi tocca dire che gli attacchi di sonno si sono ripresentati anche con questo volume, per cui qualche problema fisico l'ho riscontrato, ma è roba di poco conto. Ma basta cinciallegrare, andiamo a parlare di questo libro!
 
Autore: Cassandra Clare
Titolo: Shadowhunters. Città di cenere
Prezzo: 10 o 5 €
Editore: Mondadori
Pagine: 466
Il mio voto: 2 piume e, amica Clare, c'entri per un soffio

Dunque, la storia inizia lì dove l'avevamo lasciata. Clary e Jace sono fratelli, figli di Valentine. La madre di Clary, personaggio completamente inutile come tanti altri presenti nel romanzo, è ancora in coma. E vabbè, non è una grossa perdita. Avrei fatto cadere in coma altre due o tre persone del romanzo io, quindi figuriamoci. Luke niente, è ancora licantropo, inutilmente innamorato della madre di Clary e inutilmente nominato in questo romanzo. Che fa Luke? Niente, ogni tanto guida un furgone.
Il Consiglio o come diavolo si chiama, insomma gli Anziani tra gli angeli – quelli che governano, per capirci – sono convinti che Jace sta dalla parte del traditore suo padre, sì perché Valentine è cattivo cattivo cattivo, ma così cattivo che ammazza a destra e a manca per avere il potere. E poi per boh, fare cose cattive cattive cattive anche dopo, credo. Isabelle e Alec, niente, nominati tipo tre volte in tutto il romanzo, ci stanno o no è lo stesso. Simon c'è, gli succede una cosa brutta brutta ma è ancora vivo alla fine del libro, per cui è inutilmente inutile anche lui proprio come Luke. Con la differenza che nemmeno guida un furgone. Quindi, questo è più o meno il riassunto di ciò che succede ai personaggi. Per il resto, in questo libro, accade che Jace viene improgionato perché considerato traditore pure lui, Valentine si fa un esercito di demoni che stanno tutti concetrati attorno a una nave nel bel mezzo del fiume (una nave in un fiume? Ok.), c'è la guerra. Tutti quelli importanti (se fa pe' dì) vivono, di Valentine alla fine della guerra nessuna notizia. Fine. Per narrare il tutto alla nostra amica sono servite 466 pagine. Io ce l'ho fatta in circa venti righe. Va bene, ve lo concedo, non ho usato dialoghi. Facciamo che se riscrivo la storia ne utilizzo cento e ci metto anche due o tre descrizioni. Ma usare 466 pagine, credetemi, è violenza carnale – consapevole – verso il lettore.

martedì 4 novembre 2014

Gruppo di lettura #4 La briscola in cinque

Buongiorno!
Avrei dovuto scrivere questo post almeno una settimana fa, ma non ne ho trovato il coraggio (e la voglia, confesso). Il motivo è semplice, ma andiamo con ordine.
Per chi fosse approdato adesso e non sapesse dell'esistenza di questa cosa meravigliosa che è il gruppo di lettura di Scratchbook adesso ne è informato. Dunque, a cadenza completamente casuale e con regole mai fisse, su questo gruppo Facebook si organizzano dei Gruppi di lettura ai quali prendo più o meno sempre parte. È bello, fidatevi, lanciatevi, iscrivetevi, leggeteci, patecipateci e tutti gli evi e gli eci che volete.
L'ultimo gruppo di lettura al quale ho preso parte non richiedeva di leggere un libro specifico di un autore specifico, bensì si basava su delle caratteristiche. Mi spiego meglio. Il libro che avremmo dovuto leggere doveva essere scritto da un autore (o autrice) italiano, contemporaneo, vivente e sotto i cinquant'anni. Semplice, no? No, per me no. Per niente.
Quest'anno, come ho già detto praticamente ovunque, mi sono aperta agli scrittori italiani e, sebbene non mi siano capitati per le mani testi brutti (anzi!), sento comunque di non appartenere a questo genere di scrittori. Non so spiegarvi meglio, è a pelle: mi sento più affine a testi scritti da anglosassoni o, pradossalmente, da giapponesi. 
Ho comunque deciso di accogliere la sfida perché sono una lettrice "onnivora", mettiamola così. Trovo che lo snobismo di alcuni, blogger e non, verso cose che non conoscono e non hanno letto (a prescindere) sia sintomo di pochezza intellettuale. Sì, anche io sono sostenitrice del non l'ho letto e non mi piace (come dico sempre nel caso di Paolo Giordano e altri autori), ma con criterio. Nel senso che ho letto altri italiani prima di dire che non è una fetta di "letteratura" (passatemi il termine) che non mi piace. Quindi, senza nemmeno aver dato una possibilità a un libro, un autore, un genere, una nazionalità evito di giudicare, ergermi a mostro di intelligenza e sputare sentenze.
Ma non divaghiamo. Quindi, dicevo, visto che sono onnivora e prima di giudicare preferisco vedere, leggere o assaggiare, mi sono lanciata in questa sfida – e lo è davvero stata – e ho scelto Marco Malvaldi.
Malvaldi era perfetto, perché potevo piazzarlo anche nella Reading Bingo Challenge alla quale partecipo sul forum dei bookcrosser italiani. Dato il fioretto di non acquistare libri fino alla fine dei tempi, ho controllato nel catalogo della biblioteca vicino casa e si è aggiudicato il posto da vincitore La briscola in cinque. Ed è stato meglio averlo preso in prestito dalla biblioteca senza acquistarlo.

Titolo: La briscola in cinque
Autore: Marco Malvaldi
Editore: Sellerio editore Palermo
Pagine: 163
Il mio voto: 3 piume scarse

Ho sempre sentito parlare bene di Malvaldi, più o meno da chiunque conosca: lettori forti, lettori occasionali, blogger, persino non lettori (ossia gente da un libro l'anno). 
Uno scrittore apprezzato da una così ampia gamma di lettori credevo mi avrebbe lasciato qualcosa in più. Non è accaduto.
Non sto dicendo che La briscola in cinque sia un brutto libro, assolutamente. Anzi, trovo che sia molto scorrevole e che si legga con estrema facilità. La storia è carina e semplice da seguire, lo stile di Malvaldi divertente e leggero.
Ecco, è questo il punto. Questo libro ha un unico, grandissimo difetto: è arioso, inconsistente. Forse, paradossalmente, è più adatto a un pubblico di non lettori o di lettori occasionali. 
Non fraintendetemi, non sono tipa da facili snobismi – chi mi legge spesso lo sa – e non sono nemmeno quel tipo di persona che associa la lettura necessariamente a qualcosa di "culturale", per cui si fa del male leggendo solo Moravia, Pasolini, Joyce e se sei uno scrittore con meno pesantezza (passatemi il termine) di Tolstoj non meriti nemmeno di varcare la soglia di casa mia. 

lunedì 27 ottobre 2014

Recensione – in anteprima – Noi

Non è un periodo semplice questo. Non che abbia qualche problema eh, sto benissimo. Magari non proprio in forma, ma questo è un problema che ho sempre avuto. La chiapponaggine ha sempre la meglio sulla ginnicità e quindi, ecco, il fuori forma è la mia condizione naturale. Ma questa non è la sede adatta per parlare della mia precoce anzianità e dalla mia nota avversione per l'attività fisica (cioè, il divano mi trasmette emozioni migliori e decisamente più positive di quanto sia in grado di fare un tapis roulant).
Ma, appunto, dicevamo. Sto bene ma quest'anno ho provato per la prima volta quella brutta malattia che si chiama blocco del lettore. Ho letto pochissimo, senza un reale perché. E, di conseguenza, mi sono ammalata del blocco del blogger che mi fa recensire i libri, certo, ma con grandissima difficoltà. Non posso, però, non parlarvi di Noi di David Nicholls perché, insomma, voi lo sapete che io lo adoro alla follia e vengo presa da un raptus bimbominkiesco ogni volta che ne sento parlare.
Mi scuso in anticipo e in ginocchio su ceci e fagioli borlotti per quanto leggerete. Avrei potuto fare di meglio, lo so. Ma, ecco, i brutti periodi capitano a tutti. E quindi... Noi.

Titolo: Noi
Autore: David Nicholls
Editore: Neri Pozza
Pagine: 431
Prezzo: 18 € (disponibile dal 30 ottobre)
Il mio voto: 4 piume

Trama

Douglas e Connie si conoscono alla fine degli anni Ottanta, quando il muro di Berlino era ancora in piedi. Trent’anni e dottore in biochimica, Douglas trascorreva allora i giorni feriali e gran parte del weekend in laboratorio a studiare il moscerino della frutta, il drosophila melanogaster. Connie, invece, divideva il suo tempo con una «combriccola di artistoidi», come li chiamavano i genitori di Douglas: aspiranti attori, commediografi e poeti, musicisti e giovani brillanti che rincorrevano carriere improbabili, facevano tardi la sera e si radunavano a volte a casa di Karen, la sorella di Douglas piuttosto promiscua in fatto di amicizie, a bere e discutere animatamente. Ed è durante una festa nel minuscolo appartamento di Karen, in mezzo a sedici persone accalcate intorno a un asse da stiro, che Douglas si imbatte per la prima volta in Connie: capelli ben tagliati e lucenti, un viso stupendo, una voce sensuale, distinta ed elegante con i suoi vestiti vintage cuciti su misura, attillati e perfetti. Sono trascorsi piú di vent’anni da allora e Douglas e Connie sono sposati da decenni e hanno un figlio, Albie. Douglas ha cinquantaquattro anni e la sensazione di scivolare verso la vecchiaia come la neve che cade dal tetto. Connie è sempre attraente e Douglas la ama cosí tanto che non sa nemmeno come dirglielo, e dà per scontato che concluderanno le loro vite insieme. Una sera, però, a letto, Connie proferisce le parole che Douglas non avrebbe mai voluto sentire: «Il nostro matrimonio è arrivato al capolinea, Douglas. Penso che ti lascerò». Una storia finita, aggiunge Connie, con i diciassette anni di Albie che sta andando via di casa per proseguire i suoi studi d’arte altrove. Una storia da suggellare con un ultimo viaggio da fare insieme: il Grand Tour nelle maggiori città d’arte europee per preparare Albie a entrare nel mondo degli adulti, come facevano nel Settecento. Douglas, cui la vita sembra letteralmente inconcepibile senza Connie, decide che non può terminare tutto cosí, che l’amore non può svanire solo perché si è finito di occuparsi di un figlio. Accetta perciò di partire per quell’ultima vacanza insieme, un Grand Tour non per diventare piú colto, sofisticato e ricco d’esperienza come facevano nel Settecento, ma per riconquistare la moglie, e quel figlio che sembra scontento dell’uomo che sua madre ha scelto per metterlo al mondo. 

La mia recensione 

Potrei dirvi che Noi è la storia di Douglas, biochimico di trent'anni che si innamora di Connie, artista o, più propriamente, aspirante tale. La loro storia, tra alti e bassi, giungerà a quella notte in cui, circa vent'anni dopo, il libro ha inizio. Ma Noi, in realtà, non racconta solo l'evolversi di una storia d'amore. Noi, attraverso le parole del pedante, polemico e fastidiosamente intransigente Douglas, racconta il complesso groviglio di sentimenti che lega i componenti della famiglia Petersen.
Mi piace Nicholls, mi piace il suo modo di disegnare i personaggi, di renderli così reali e coerenti con le loro azioni da far sì che il lettore pensi di conoscerli davvero. Mi piace perché, seppur con una prosa fluida e leggera, riesce a trattare argomenti di un certo spessore. Mi piace perché i protagonisti dei suoi romanzi non sono mai eroi, non sono macchiette e non ci sono personaggi belli e personaggi brutti; ci sono invece fallimenti, malinconie, difetti, intensi sentimenti, amori incondizionati o finiti o appena nati, amori per altre persone, per i figli, per i luoghi, per i ricordi. Ma, soprattutto, ci sono persone. Sì, esatto, persone. Anzi, per essere più corretti dovrei utilizzare l'espressione "esseri umani", con le loro paure e con i loro difetti che rischiano di incrinare rapporti, di mettere a repentaglio la propria e l'altrui felicità.
Proprio per questo motivo ho trovato interessante la scelta dell'autore di narrare in prima persona; solitamente non apprezzo in particolar modo la prima persona perché molti autori non resistono alla tentazione di voler apparire forzatamente accattivanti, talvolta rivolgendosi al lettore e sforzandosi di apparire simpatici a ogni costo. Probabilmente, invece, questo romanzo non mi sarebbe piaciuto così tanto se l'autore avesse scelto di utilizzare la narrazione in terza persona.

venerdì 17 ottobre 2014

Ciarlando allegramente di... #10

Niente, non potete capire quanto mi costa scrivere questo post. Avete presente quelle volte in cui dovete fare qualcosa che, se da un lato vi va di fare, dall'altro no? Ecco, io da un lato vorrei (e potrei soprattutto) scrivere mille mila post, essere più presente su Facebook e Twitter e poi, invece, niente. Sfuma tutto così. Apro la pagina – una qualunque di queste – e la richiudo due o tre ore dopo senza aver scritto nulla. Non lo so, è così. Sarà che questo è il periodo in cui 3/4 degli animali si prepara al letargo e, pure io, in un certo senso, mi sento un po' in modalità semi-letargo attiva. 
Insomma alla fine, dopo una buona dose di violenza verso me stessa, eccomi qua. Basta vegetare e guardare il soffitto, basta arrendersi al blocco del blogger. Parliamo, piuttosto, di Le stanze buie di Francesca Diotallevi.

Il romanzo racconta la storia di Vittorio Fubini, maggiordomo presso la casa del conte e della contessa Flores a Neive, un piccolo comune in provincia di Cuneo, nel 1864.
Vittorio è un uomo tutto d'un pezzo, freddo, rigido e un po' troppo severo sia verso se stesso che e soprattutto verso gli altri. Un uomo che, si potrebbe dire, vive solo ed esclusivamente per il suo lavoro e che riversa in questo una dose importante di passione. Un pignolo, un inrtransigente, un perfettino. 
È la morte dello sconosciuto eppur sempre presente zio, Alfredo Musso, che segnerà un profondo cambiamento nella vita di Vittorio. 
Si ritroverà, infatti, a dover abbandonare Torino, la sua città, per ricoprire il ruolo del defunto zio presso la casa dei conti Flores.
Dimora che, però, nasconde un mistero che tutti i membri della servitù sembrano conoscere ma di cui nessuno è disposto a parlare. 
Strani rumori si palesano la notte, sbalzi di temperature improvvisi, singolari accadimenti confondono la mente di Vittorio che non si fermerà fino a quando non verrà a capo del misterioso segreto custodito dalle stanze di casa Flores. Di una stanza in particolare, chiusa ormai da tempo e che nessuno, in quella casa, è in grado di aprire perché, a possederne le chiavi, è solo Amedeo Flores.
La trama, che riportata in appena una manciata di righe da me che non sono una scrittrice e nemmeno una che si diletta a scrivere le quarte di copertina, sembra banale e tipica della peggior partita a Cluedo della vostra vita. Invece vi assicuro che non è affatto così. Perché l'ambientazione, i personaggi e la scrittura attenta e minuziosa dell'autrice rendono questo romanzo più vicino a Jane Eyre e Downton Abbey che a Cluedo. Sì, sebbene si tratti di un esordio –che mi auguro vada bene così da spingere Francesca a scrivere un altro romanzo– di un'autrice italiana, l'ambientazione e l'aria che si respira tra le pagine di questo libro è la stessa di un romanzo inglese d'altri tempi. Un po' cupo a volte, ma della stessa, identica e grigia cupezza di cui i romanzi inglesi del 1800 sono impregnati. 
Coinvolgente, oltre allo stile dell'autrice, anche il modo in cui Francesca decide di approfondire la figura di Vittorio, con un susseguirsi di flashback ben posizionati che coinvolgono così tanto il lettore che, a un certo punto, non ci si ricorda più se il romanzo è un grande flashback con salti nel futuro o viceversa. Ma, credetemi, non ha davvero alcuna importanza. 
Si vede, si percepisce, che l'autrice abbia fatto un lavoro di precisione quasi chirurgica nella stesura di questo romanzo e si avverte anche la forte passione che Franscesca nutre per gli intrecci tipici dei romanzi classici. O meglio, io l'ho percepita senza che però abbia chiesto all'autrice se la nutre davvero. Secondo me sì. Consigliato, senza mezzi termini. E affrettatevi, ché come Jane Eyre questo è un romanzo da gustare in autunno.


lunedì 22 settembre 2014

Recensione Un animo d'inverno

E salve!
Torno, finalmente in questo spazio, per parlare veramente di libri e non per farneticare su cose, situazioni, librai, club letterari e sciocchezzuole. Ieri sera ho terminato la lettura di Un animo d'inverno di Laura Kasischke, libro concessomi in anteprima da Neri Pozza perché partecipo al Neri Pozza Book Club (sì, l'ho detto un milione di volte ma metti che qualcuno arriva adesso e non lo sa? È bene precisare perché ero dotata di questo libro prima della sua uscita).
Quindi, dicevo, l'ho terminato e ho iniziato Le stanze buie di Francesca Diotallevi, copia invece concessa da La Leggivendola un trilione di anni fa (sì, vabbè, sono in ritarderrimo ma l'ho custodito bene, è stato in ottima compagnia con altri to be read, non s'è stropicciato, è stato anche al fresco).
Spero di finirlo in tempi brevi perché sono indietro con tutte le challenge alle quali partecipo e, ragazzi, Dicembre è alle porte (giusto per dire eh).
Dunque, parliamo di Un animo d'inverno.

Titolo: Un animo d'inverno
Autore: Laura Kasischke
Editore: Neri Pozza
Pagine: 288
Prezzo: 17 €
Il mio voto: 3 piume

Trama

Sono trascorsi tredici anni da quando Tatiana è con Holly ed Eric. Tredici anni da quando, in Russia, l'hanno raccolta in una coperta logora e, tremanti di gioia, l'hanno portata con loro in America. Tredici anni in cui la piccola Tatty è diventata una bellissima quindicenne, una ballerina russa dolcissima e vagabonda, l'amore della loro vita. Ora è la vigilia di Natale e fuori casa il vento fischia come un tendine teso tra gli alberi, e nevica. Eric si è avventurato nella tormenta per andare a prendere i suoi genitori e celebrare con tutta la famiglia il Natale. Holly dovrebbe essere felice in quel giorno di festa. E invece si dirige subito in cucina con i piedi nudi e uno strano pensiero in testa che non riesce a scacciare. Il pensiero che tredici anni prima qualcosa di terribile deve averli seguiti dalla Russia. È un'idea assurda, inammissibile, ma Holly ne percepisce, ne avverte chiaramente la verità da quando si è svegliata in quella mattina d'inverno. Come spiegarsi, infatti, gli eventi accaduti? La gatta che improvvisamente si trascina via le zampe posteriori e la coda? Il rigonfiamento sul dorso della mano di Eric, un minuscolo terzo pugno da omuncolo che i medici trascurano come cosa da niente, ma che non sparisce? La zia Rose, che si è messa a parlare in modo strano, in una lingua sconosciuta? E i dischi, tutti graffiati dall'oggi al domani, irrimediabilmente rovinati? Qualcosa li ha seguiti dalla Russia. Holly se lo sente dentro, come un dolore bruciante... 

La mia recensione

Mi riesce difficile parlare di Un animo d'inverno. Ancora adesso, dopo averlo finito e aver ragionato sulla storia, sui personaggi, sull'epilogo, sullo stile e sulla struttura narrativa non riesco a dire se mi sia piaciuto un po' oppure no. Certamente ci sono elementi che di questo romanzo ho apprezzato che, sebbene non mi abbiano convinta del tutto, non mi hanno lasciata completamente indifferente.
La storia narrata si svolge durante il giorno di Natale di un anno imprecisato in casa dei coniugi Holly ed Eric i quali, tredici anni prima hanno portato a casa con loro, dalla Siberia, una piccola e dolce bambina sottraendola alle violenze e alla malnutrizione dell'orfanotrofio Potrovka n.2.
Tredici anni in cui hanno amato, oltre ogni limite, quella bambina dai capelli lunghi e lucenti, dagli grandi e occhi profondi. Una vita come tante altre, simile a quella di tante altre famiglie fino a quel giorno. Della trama, purtroppo, non posso dire nulla più senza lasciarmi sfuggire qualche spoiler.
L'idea di base è buona e Laura Kasischke è di certo in grado di utilizzare bene le parole, creando immagini nitide e reali non solo di persone e situazioni, ma anche di stati d'animo ed emozioni.
L'unico vero grande neo di questo romanzo che non mi ha lasciata completamente soddisfatta della lettura, è costituito dalle ripetizioni e da una costante sensazione di dubbio non tanto sulla storia, quanto sull'aver compreso o meno quanto sta accadendo. Dubbio che, una volta terminata la lettura, non è stato comunque fugato. La domanda, la vera domanda su Holly, me la sono posta a pagina dieci ed è rimasta così, invariata, fino alla fine. Questo, mi rendo conto, è un mio limite e un mio difetto: odio leggere libri, ma anche guardare film e serie tv, che non mi forniscono una risposta chiara.
Ma, al di là della risposta più o meno chiara che fine lettura che non è arrivata – e sulla quale posso comunque continuare rimuginare da sola e che non deve necessariamente costituire il fine ultimo della storia narrata – e che può essere un problema magari per me ma per altri lettori no, il vero scoglio insormontabile è costituito dalle ripetizioni. Continue, inutili ripetizioni. Altre trenta pagine di Russia, Siberia, orfanotrofio Potrovka n.2 e Tatiana e avrei preso il muro a testate.

martedì 16 settembre 2014

Fabio Stassi, Jennifer Egan, Book Club Neri Pozza, acquisti e scoperte libresche e blablabla

Sebbene abbia inserito nel titolo come primo argomento Fabio Stassi, preferirei cominciare a parlarvi di Jennifer Egan e del suo romanzo, unico suo lavoro che ho avuto tra le mani, Il tempo è un bastardo. Ve ne voglio parlare subito perché è passato fin troppo tempo da quando l'ho terminato e se non comincio subito temo che non ve ne parlerò mai. 
Lo confesso, mi sono avvicinata alla Egan per due semplici motivi: il primo è che mi è stato consigliato da un libraio, che poi sono dettagli che corrisponda al mio attuale ragazzo, e poi perché la struttura narrativa utilizzata nel romanzo è la stessa che mi aveva fatta innamorare di Olive Kitteridge (di cui vi ho parlato qui). Forse è un caso, o forse no, che entrambi i romanzi abbiano vinto il Pulitzer. Certo non è un caso che mi siano piaciuti entrambi, in modo molto diverso tra loro però.

Il tempo è un bastardo è uno di quei libri che non dà spazio alle mezze misure: o ti piace e da subito oppure non ti piace per niente. Appartiene a quella categoria di letture che non ti senti pienamente di consigliare a qualcuno. A meno che, sia chiaro, quel qualcuno non legga esattamente gli stessi libri che leggi tu. Perché questo romanzo non è un romanzo vero e proprio, ma non è nemmeno una raccolta di racconti. E poi i personaggi, sono tanti –forse a tratti anche troppi– e le loro caotiche vite sono tutte strettamente relate tra loro. 
Il grado di apprezzamento di questo libro dipende, secondo me, dal tempo che ci si impiega a leggerlo e, soprattutto, dal modo in cui se ne affronta la lettura. Si tratta di un libro che va letto con la costanza che si dedica a un romanzo ma con l'idea che ci si stia intrattenendo con una raccolta di racconti. Quale che sia la figura portante del romanzo/raccolta di racconti non ve lo so dire. La vita, forse. Certamente non lo sono Bennie e Sasha, personaggi con i quali si apre e chiude quanto viene narrato da Jennifer Egan. 
Sì, probabilmente la protagonista è la vita. Di Bennie, di Sasha, di Lou, di Alex, di Scotty. Così sfuggente, a volte così cruda e dalla durezza addirittura prepotente, con i suoi fallimenti, le sue ingiustizie, le dipendenze. 
I continui salti temporali tra un capitolo e l'altro, i cambiamenti del punto di vista e dell'ambientazione delle vicende a volte disorientano, ti lasciano stordito. Chi è chi parla, in che modo è collegato a chi e dove si trova, sono le prime cose che cerchi di capire mentre ti trovi a leggere l'inizio di una storia, un capitolo o un racconto, che dir si voglia. 

domenica 24 agosto 2014

Lo strano caso degli esperimenti targati Giulio Einaudi Editore


E buongiorno!
Lo so, sono assente da un po' perché il post sul John Green non è nemmeno da considerarsi un post dei miei. Guardate, se non fosse che so di averlo scritto io, perché ne ho memoria, mi domanderei perché sta lì e chi diavolo l'ha pubblicato sul MIO blog. 
È che davvero, credetemi, pensavo che Colpa delle stelle mi sarebbe piaciuto e nemmeno poco. Avevo l'impressione che, sebbene si trattasse di un libro per giovani lettori, fosse più incisivo, meno semplice e, perché no, semplicistico. Questo, invece, non è accaduto. I motivi sono quelli di cui parlo in quel post lì, quello che ho scritto io ma che non riconosco come mio (davvero eh, avrei potuto scrivere un altro paio di righe e anche un poco più articolate, ma è il caldo, capite? Fa veramente caldo a Roma).
Successivamente a Colpa delle stelle, ho iniziato la lettura (e terminato anche) di Storia catastrofica di te e di me di Jess Rothenberg. Un altro libro per ragazzi, oggi chiamati young adult.  
Storia catastrofica di te e di me, però, è travestito da libro per adulti. Sì, perché fa parte di quegli esperimenti che, ogni tanto, Einaudi intraprende. Avevo accennato a questa cosa su Facebook, senza però approfondire l'argomento. Oggi, invece, siccome mi sono svegliata un po' scontrosa, un po' blogger, un po' polemica e anche un po' più intelligente (forse dovrei prendere un po' d'aria fresca quando è così), voglio parlarne.
Quindi, parliamone. Diciamolo, oggi se sei una big e non pubblichi young adult non sei nessuno. 
E non lo dico io eh, lo dicono le big perché tutte, tutte ma davvero tutte le big (SperlingSonzognoRizzoliNordDeAgostiniFabbriPiemmeGarzanti etc.) pubblicano – o hanno pubblicato – young adult e paranormal romance o lo strano connubio tra i due generi (aiuto!). 
Ma, per non farvi pensare che parlo a vanvera – non sempre almeno – andiamo con ordine, soffermandoci sul caso Eiunadi ché mi interessa in particolar modo. 

martedì 19 agosto 2014

Ciarlando allegramente di... #9

Per cui, alla fine l'estate è arrivata – e in verità anche quasi finita – anche per me. Tante novità, un nuovo tatuaggio, una persona speciale nella mia vita, una vacanza appena conclusa, tanti libri ancora da leggere, una libreria da sistemare, un nuovo lavoro da trovare e un intero mese di incontri letterari ancora da vivere. Insomma, non sembra nemmeno la mia vita che, fino a qualche mese fa, era di un piattume che, credetemi, un barbagianni avrebbe avuto più cose da raccontare.
Ma c'è tempo per un post di inutili quisquiglie, non c'è più tempo invece per parlarvi di Colpa delle stelle di John Green che ho terminato nel mio primo giorno passato a Dublino.

Ho iniziato a leggere questo romanzo con un carico di aspettative che non ve lo dico nemmeno, convinta che fosse se non proprio un capolavoro, qualcosa che ci si assomigliasse almeno vagamente. Sì, lo so perfettamente che spesso i bestsellers poi, alla resa dei conti, non sono nemmeno un granché
ma... Non so dirvi perché con questo libro credevo fosse diverso.
Trovo che la storia sia molto bella, non necessariamente indirizzata a un pubblico giovane se non fosse per lo stile con la quale è narrata: troppo semplice e semplicistico, esageratamente giovane, mi sembrava di trovarmi in una puntata di Genitori in blue jeans dove, per evidenziare che fosse una serie dedicata ai gggiovani, c'erano espressioni tipo "i miei vecchi", oppure "ganzooo!" (all'epoca era di moda). Insomma, come se in un libro trovassi l'equivalente di "bella zì!" quando due amici si incontrano (e qui i romani potranno capirmi più degli altri). Non fraintendetemi, anche Tutto accade oggi di Jesse Browner è scritto con uno stile narrativo gggiovane, ma c'è una sostanziale differenza. Innanzi tutto la troppa semplicità dei periodi. D'accordo, è un libro per adolescenti. Ma, cielo!, gli adolescenti spero riescano a comprendere periodi più complessi di soggetto, predicato e complemento oggetto. E poi, non so, ho avuto l'impressione che John Green sopravvaluti e idealizzi un po' troppo gli adolescenti. Certamente ci saranno ragazzi così maturi, così puri di cuore, così altruisti e intelligenti e, sicuramente, questo è più semplice che accada in ragazzi che per motivi personali (gravi o meno gravi) sono stati costretti a vivere la vita in un determinato modo – come, appunto, Hazel malata di cancro da piccolissima e Augustus, la cui carriera sportiva è stata stroncata dal cancro. Probabilmente John Green ha ragione a raccontarci le vite e i sentimenti, straordinariamente complessi e profondi di questi due ragazzi, ma poi io passeggio per il centro a Roma e mi imbatto nella fauna adolescenziale laziale e mi si accappona la pelle. Quindi, autore Green, forse gli adolescenti anglosassoni sono meglio della fauna laziale – e dubito fortemente – ma forse, anche tu, hai un po' esagerato.
Questi, sostanzialmente, sono i motivi che mi hanno portato a non apprezzare pienamente il libro. Nonostante ciò, trovo comunque che non sia un brutto libro o una storia scontata e banale. Dell'argomento, sebbene sia triste e abbastanza pesante da affrontare, John Green ne scrive in modo dolce e, a suo modo, spensierato. Strano dire che Colpa delle stelle è, ma non è, un libro triste. Sì, perché la storia è triste, ma l'autore ci porta ad interessarci ai sentimenti di chi vive questa storia. E i sentimenti di Hazel e di Augustus – sentimenti di amore, amicizia, speranza – non sono mai tristi.
Un libro che, forse, rende meglio nella trasposizione cinematografica (per intenderci, fa lo stesso effetto che fece alle adolescenti Papà, ho trovato un amico). 
Un romanzo che probabilmente avrei apprezzato di più a quattordici anni e che ha questo grande difetto: superata una certa età – e una certa maturità letteraria – non riesce a lasciare il segno.

martedì 22 luglio 2014

Ciarlando allegramente di... #8

Ho terminato la lettura di Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas da eoni. E dire, poi, che l'ho praticamente divorato quindi non avrei dovuto riscontrare particolari problemi nel parlarvene. E invece... Invece la mia vita mi è sfuggita un attimo di mano ultimamente. In sostanza non ho più il tempo di fare nulla, nemmeno leggere. Ho iniziato Gli eroi imperfetti di Stefano Sgambati l'1 luglio e l'ho terminato da poco, vogliamo parlarne? Per non nominare nemmeno la tragica situazione del mio fegato se continuo a mangiare fuori con questa frequenza. E quindi, vabbè, questa non è certamente la sede giusta per parlare della mia giornata tipo.
Comunque, andiamo con ordine, parliamo di un libro per volta. Parto dal libro che mi ha scossa di meno, di cui è decisamente più semplice parlare.

Se ti abbraccio non aver paura è un diario che racconta il viaggio in America di Franco e Andrea, padre e
figlio. Non racconterebbe una storia veramente degna di nota se non fosse che Andrea è un ragazzo affetto da autismo. Il romanzo (ma si potrà poi considerare un romanzo?) racconta non solo il viaggio, intrapreso in parte a cavallo di una moto, dall'Italia agli Stati Uniti, ma anche e soprattutto di quali sentimenti e quali emozioni leghino l'animo puro di Andrea alla forte personalità di Franco. Una storia molto dolce la narrazione della quale è intervallata da alcune parti di conversazioni scritte realmente da Franco e Andrea.
Incredibile come il mondo sia visto attraverso gli occhi di un adolescente autistico che accosta l'aggettivo "bello" a situazioni e contesti realmente differenti tra loro. Incredibile perché mostra al lettore quanto l'autismo amplifichi le emozioni e le renda uniche, indimenticabili.
Il tema dell'autismo è trattato in maniera poco approfondita, probabilmente perché lo scopo del romanzo non è informare il lettore dei lati negativi della malattia, ma mostrarne invece i lati positivi, quelli che fanno di Andrea un ragazzo dolcissimo e a suo modo romantico. Un romanticismo e una purezza d'animo che, senza esagerare, definirei ottocentesca.
La vicenda è narrata con uno stile molto semplice, oserei dire colloquiale. Non ho letto altro di Ervas, quindi non posso esprimermi circa il suo modo di scrivere. Non so, in effetti, se lo stile così semplice ed elementare sia da considerarsi tipico dell'autore o semplicemente voluto per rendere questa meravigliosa storia alla portata di tutti. Certo è che, grazie a questo romanzo dalle tinte tenui e dai colori pastello, la Marcos y Marcos mi ha incuriosita: leggerò sicuramente altro di Ervas.
Un viaggio tenero e leggero, da leggere su una panchina al parco.

martedì 1 luglio 2014

Recensione L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

Ieri e oggi avrei dovuto fare talmente tante di quelle cose che, onestamente, non le ricordo nemmeno tutte. Se sto qui a scrivervi a quest'ora, capirete da soli che di queste cose ne ho portate a termine solo un paio. No, nemmeno un paio, una e mezza. E dire che non sono nemmeno andata al lavoro ieri mattina, quindi avrei potuto, come dire, fare qualunque cosa. Avevo il mondo ai miei piedi e invece... Invece niente. Ho finito Ervas e ho oziato sul letto. Non ho nemmeno dormito, non ho visto un film, niente. Ho guardato il nulla dritto di fronte a me. E non si trattava nemmeno del soffitto, dato che il mio letto è incassato, per cui se alzo lo sguardo vedo l'armadio... Quindi, giovini, ho finito Ervas e fissato l'armadio. 
Ma sono qui per parlarvi di Haruki Murakami, prima che passi troppo tempo e non trovi più il coraggio di scriverne.

Titolo: L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio
Autore: Murakami Haruki
Editore: Einaudi
Pagine: 264
Prezzo: 20
Il mio voto: 4 piume

Trama

Quando vieni tradito dagli unici amici che hai, quando all’improvviso le persone piú care ti voltano le spalle senza una spiegazione, nel tuo cuore si spalanca un abisso dentro il quale è facile precipitare. Tazaki Tsukuru ha convissuto con il dolore di quell’abbandono per troppo tempo. Dopo sedici anni capisce che non può nascondersi per sempre: deve rintracciare gli amici della giovinezza e scoprire il motivo di quel gesto. Ma piú di tutto deve scoprire chi è veramente Tazaki Tsukuru. Il nuovo romanzo di Murakami Haruki è una meditazione sulla natura della felicità, sull’amicizia e il desiderio. Sul prendere coscienza di una cosa: che iniziamo a vivere davvero soltanto quando iniziamo a morire un po’.

La mia recensione

Letto perché avremmo dovuto parlarne in gruppo allo scorso appuntamento di Non sono sòle, mi ha lasciata un po'... Un po' perplessa. Mi sento di precisare che, gruppo di lettura o meno, questo libro lo avrei letto comunque, magari fra circa quindici anni – considerati i miei tempi bradipi (si potrà usare come aggettivo? Sarà mica bradipici?) –, ma lo avrei letto lo stesso. Sì, perché a me Haruki Murakami piace molto, mi piacciono le sue storie, mi piace l'uso che fa delle parole, mi piacciono le immagini che trasmettono i suoi personaggi. Perché, vedete, di Haruki cerco sempre di spiegare agli altri cosa mi piaccia così tanto e non ci riesco mai. O meglio, non riesco a spiegarlo razionalmente. Perché ci sono quegli autori, quei libri, che ti entrano dentro, che sembrano afferrare il tuo cuore con la mano e scuoterlo violentemente, che ti trafiggono i polmoni con le loro parole taglienti e ti fanno respirare appena, togliendoti l'aria. E, capite, è del tutto irrazionale. Murakami scuote il mio cuore ma, ancor più, manda in visibilio i miei neuroni presinaptici. Non so cosa succede a livello cerebrale, probabilmente quello che più si avvicina è uno scoppio di elettricità, qualcosa di simile ai fuochi d'artificio, per intenderci.
Ecco, Murakami mi emoziona nel profondo. Potrebbe descrivere la copertina dell'elenco telefonico o rielaborare il foglietto illustrativo del paracetamolo e io lo troverei interessante, leggendolo tutto d'un fiato.
La storia de L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, raccontata da chiunque altro, mi avrebbe annoiata a morte. È un libro dove, parliamoci chiaramente, non succede nulla. E però il nulla di Haruki Murakami non è mai un vero e proprio nulla.
Tazaki Tsukuru ci viene descritto come un uomo qualunque, solo e senza amici, innamorato di Sara, una donna che, non sapremo mai perché, risulta sfuggente e dalla personalità poco definita.

martedì 24 giugno 2014

Ciarlando allegramente di... #7

Sì, lo so, sono una brutta persona e una blogger inaffidabile. Avrei dovuto scrivere questo post eoni fa, ma ci vuole calma e concentrazione per parlare di libri belli, mica lo so può fare così, con la testa piena di altri mille pensieri. E ultimamente ho pensato a tante cose, pure troppe, e ho avuto altrettante cose da sistemare e quindi niente, è andata che ho realizzato domenica sera che il mio weekend era finito e che il lunedì era alle porte. Poi è anche vero che mi distraggo subito, ho il livello di attenzione di una ragazzina di tre anni e per cui basta che mi contattiate per farmi una domanda e finisce che parliamo per due ore. Holden lo sa bene. E poi c'è stato Letti di notte e vabbè... Ma basta parlare di me e di quanto sono centripete, veniamo a noi. Oggi ciarliamo di Quando il diavolo ti accarezza di Luca Tarenzi,  che ho conosciuto per merito della mia dolce e cara Leggy.

Mi piace il fantasy e, ancor più, mi piace l’urban fantasy. Non ne faccio un mistero, sebbene legga prevalentemente altro ‒ e quasi sempre letteratura americana – trovo sempre il tempo per un buon fantasy.
Quando il diavolo ti accarezza è stata una bella sorpresa. Un po’ me lo aspettavo perché mi fido ciecamente dei consigli della persona che lo ha letto, ma non pensavo mi avrebbe trasformata in una fangirl dell’autore. Senza contegno proprio, nonostante la mia non più giovane età.
Lena, una studentessa universitaria normale, che vive a Milano e lavora in un bar per guadagnarsi quanto le basta a malapena per andare avanti, si ritrova d’un tratto catapultata in quella che potrebbe tranquillamente essere una puntata di Supernatural. Sì ok, non letteralmente, quindi nessun Jensen Ackles e nessun Jared Padalecki nella vita di Lena (purtroppo!). 
La vita di Sofia, amica d’infanzia di Lena, è in pericolo perché qualcuno ha evocato un demone, Arioch, per farla fuori. Ma perché? Questo è l’interrogativo che il lettore, insieme a Lena, si porrà per buona parte del romanzo.
Il ritmo, incalzante, incuriosisce a tal punto da far sì che il romanzo venga letteralmente divorato. O almeno questo è quanto è successo a me. Letto d’un fiato, senza curarmi della gente intorno a me, saltando le pause pranzo al lavoro, andando a dormire a orari improponibili per chi la mattina dopo ha necessità di buttarsi giù dal letto alle 7.
Tutto in Quando il diavolo ti accarezza è scritto e descritto bene: i personaggi, credibili e ben delineati – anche se Sofia rimane un personaggio secondario, sebbene la storia, in un certo senso, ruoti intorno a lei –, l’ambientazione italiana, anche questa credibile e ben strutturata, la storia narrata nel suo complesso.
Non sempre gli urban fantasy riescono a convincere il lettore in tutti i loro aspetti, magari qualche elemento o anche un lato del carattere di uno dei personaggi stona o ci convince poco. Questo, per fortuna, con Quando il diavolo ti accarezza, non accade. Avrei, forse, dato più spazio al personaggio di Settala che, a mio parere, avrebbe tantissime cose interessanti da raccontare. Ma sono certa che Luca Tarenzi conosce bene il potenziale di questo personaggio e chissà, magari un giorno scriverà un romanzo con Settala come protagonista principale.
L’unica cosa che, pensandoci bene, poco mi piace di questo romanzo è il titolo. Non che sia brutto o che non ci prenda nulla con la storia (come spesso accade) ma, accompagnato a questa copertina, sembra che si tratti di un harmony con protagonisti angeli e demoni. E sì che ci stanno gli angeli e i demoni e si dà il caso che ci sia anche una storia d’amore ma, credetemi, niente è più fuorviante del lavoro svolto da Salani.
Adesso devo solo recuperare una copia di God Breaker perché, ecco, leggere Tarenzi fa bene al cuore degli amanti del genere, come me.

mercoledì 18 giugno 2014

Non sono sòle si raddoppia

Per cui, buongiorno! Dovrei dire buonasera dato che scrivo questo post in penombra, nella mia stanzetta polverosa, alle dieci di sera. Ma il post lo pubblico di mattina e quindi buongiorno.
Ho già parlato abbondantemente di Non sono sòle qui e qui, quindi sapete già di cosa sto parlando. Giusto? Giusto. E se non lo sapete ve lo riassumo. In una notte buia ma non tempestosa – mi pare che non piovesse e comunque non era poi manco troppo notte – mentre io buttavo un occhio su Twitter e con l'altro stavo attenta a preparare una frugale cena, si è intrapresa una discussione sui libri brutti. Partecipava una cifra di gente, come al solito quando l'argomento è "caldo", e alla fine si è trovata in mezzo anche gente che magari era in altre faccende affaccendata. Nell'euforia del momento, @LeggendoLibri, @SabatelliPino, @recerusse, @DilettieRiletti e Massimiliano Timpano – uno dei due @chiusoperkindle – (e chissà chi sto dimenticando) hanno buttato in mezzo anche @libribarPallott (che sarebbe Libri & Bar Pallotta, un bar libreria che si trova a  Ponte Milvio). 
Il quesito della vita era "che fare dei libri brutti?". Eh, appunto, che farne? Regalarli a chi ci sta antipatico? – sebbene questa sia una delle cose che mi piacerebbe tantissimo fare, fortunatamente chi mi sta antipatico viene subito depennato dalle mie amicizie, e va da sé che non sono tra gli invitati agli eventi sociali da lui/lei organizzati. Non potrò, mio malgrado, mai gioire quindi di aver rifilato una sòla consapevolmente. Dicevamo. Che fare quindi? Liberarli nel primo cassonetto disponibile? Giammai. Io, almeno, non sono in grado. E quindi che si fa? 
La risposta arriva spontanea: scambiare i nostri libri brutti con i libri brutti degli altri. Non si dice, per caso, "non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace?" (Il detto rielaborato da me è invece "non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che è mio", ma questi sono inutili dettagli, manco troppo pertinenti). 
È nato così, con questa filosofia, il primo Non sono sòle, evento al quale ho partecipato lo scorso 17 maggio. Tra torte, risate e caffè mi sono divertita un mondo e mi sono accaparrata due sòle (di cui spero di parlarvi presto). 
Carmelo – l'impavido libraio di Libri & Bar Pallotta – dando prova del suo coraggio, ha deciso di raddoppiare. Poi questa cosa me la faccio spiegare in separata sede. Si tratta di puro masochismo altro che eroismo. Secondo me non ne è consapevole, possiede ancora l'ottimismo degli ingenui... Quelli che ancora non sanno che un gruppo di blogger-fanatici-fancazzisti-lettori è difficile da gestire. Non divaghiamo. 
E quindi sono qui per dirvi, abitanti di Roma e ditorni, che siete tutti invitati alla nuova puntata dell'evento dell'anno. Sì, vabbè, mi sto allargando ma questa è casa mia e me la tiro quanto mi pare.
In occasione di Letti di notte, la notte bianca della lettura in Italia, il 21 giugno si terrà quindi il secondo appuntamento di Non sono sòle che, lasciatemelo dire, questa volta ha un programmino niente male (che potete consultare qui). Ospiti importanti, autori, blogger, finti blogger, lettori e blogger dalla doppia personalità (come me, ad esempio, che sono blogger sia qua che da un'altra parte, ma non vi dirò dove... e se lo sapete non svelatelo ché ci tengo all'anonimato) si riuniranno per parlare di libri belli e di libri brutti. 
Per questo secondo incontro, si sono anche decisi due titoli da leggere per poterne parlare insieme: L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio di Haruki Murakami e Gli eroi imperfetti di Stefano Sgambati. Gli eroi imperfetti non ce l'ho fatta a leggerlo e non perché sia brutto eh, ma perché non ho avuto il tempo materiale per leggerlo. 
Eh lo so, avete ragione, sono una pessima alunna. Al liceo, infatti, ero seduta sempre all'ultimo banco. Murakami, invece, l'ho quasi terminato e ve ne parlerò dopo sabato, con calma e senza ansia da prestazione. E quindi, libri brutti, presentazioni libresche, reading di autori e vere e proprie discussioni da club del libro. Il tutto piacevolmente condito da fiumi d'alcol e pizze, tramezzini, torte e i miei cupcake o le mie crostatine, o una bella torta della nonna o tutto insieme. Insomma, il menu è ancora presto per svelarlo.
Posso invece fare due cose: scusarmi in ginocchio sui ceci perché devo ancora recensire Quando il diavolo ti accarezza di Luca Tarenzi, che mi è piaciuto assai, e chiedere perdono per ciò che ho scritto in questo post. E dire che non sono nemmeno ubriaca.

domenica 8 giugno 2014

Gruppo di lettura #3 Le correzioni

Quindi, eccoci al terzo appuntamento con il Gruppo di lettura indetto da Start from Scratch al quale, se volete, siete sempre in tempo a prender parte cliccando qui. Chiedeteci l'invito che siamo pronti ad accogliervi.
La terza puntata, in verità quarta ma alla precedente non ho potuto prender parte perché la mia lista dei to be read spaventerebbe chiunque, si è svolta in modo un po' particolare. Siccome noi siamo degli elettori della Casa delle Libertà  facciamo un po' come c...o ci pare e quindi non abbiamo letto tutti lo stesso libro, ma solo lo stesso autore: Jonathan Franzen. Con la possibilità di scegliere un volume di tutta la sua bibliografia, ho deciso di leggere Le correzioni. Il motivo è semplice: avevo già amato alla follia Libertà, sebbene le numerose critiche negative, di cui vi avevo parlato qui. Così, dato che chi aveva amato Le correzioni, aveva poi snobbato Libertà, ho voluto leggere l'altro romanzo di Franzen per capire perché. Sarò una voce fuori dal coro, me lo sento già, ma Libertà mi è piaciuto un pizzico di più. Comunque, mi toccherà smettere di leggere i libri belli e importanti, perché non so recensirli. Qualunque cosa scriva mi sembra banale e poco incisiva. E oh, torna il mare nella mia recensione e non è un caso. A me Franzen fa pensare al mare, chi lo sa poi perché.


Titolo: Le correzioni
Autore: Jonathan Franzen
Editore: Einaudi
Pagine: 604
Il mio voto: 4,5 piume



Le correzioni è un romanzone, uno spaccato di vita americana di quelli che piacciono tanto a me e al mio animo un po' romantico, un po' tormentato, un po' sognatore. Nutro un debole, manco troppo nascosto, per le storie come quelle raccontante da Franzen: famiglie complesse, con rapporti altrettanto complessi, dai componenti con personalità forse ancor più complesse. Mi piace Franzen, mi piace come inizi i suoi romanzi narrandoci una storia, per spostare poi il focus su un'altra storia, senza che questo disorienti il lettore. Le correzioni comincia così, aprendo una finestrella su Enid e Alfred, una coppia di anziani signori dai mille problemi: fisici, mentali, interpersonali, finanziari, emozionali. Giusto un accenno, qualche pagina appena, per farci tastare il terreno a piccoli passi. Un po' come quando, al mare, stiamo lì a bagnarci solo le dita dei piedi per poi decidere se che è il caso di tuffarci in acqua senza troppi ripensamenti, d'un botto, ché l'immersione sia meno traumatica ma più coinvolgente. Ecco, Franzen ragiona proprio così. Un assaggio, un antipasto, e poi il tuffo repentino e irruento.
E quando la storia comincia, non può che procedere in discesa, fino a quando non ci si affretta a scendere dalla metropolitana proprio durante il fischio che comunica la chiusura delle porte, ché si era giunti alla propria fermata già da un pezzo e che nemmeno il puzzo del sudore della gente è riuscito a disturbarci. E questo accade e accade e accade ogni singolo giorno, finché non si sarà terminata la lettura. Eventi come questi, quello di non accorgersi del passare del tempo in metropolitana, (mi) accade raramente. Succede solo con i romanzoni, succede spesso e volentieri con i romanzoni degli autori americani bravi come Franzen.
Le correzioni è un romanzo non solo da leggere, ma da vivere, accarezzare, assaporandone le sfumature.