domenica 28 dicembre 2014

Recensione Confessions

Ok, mi sono presa di giorni di tempo per matabolizzare Confessions di Kanae Minato. Se attendo altri due giorni per scriverne non lo farò più. Il motivo è semplice: è stata una lettura toccante, ma al contempo dolorosa e molto triste e ciò rende difficoltoso parlarne. 
Poi, per farmi ancora più male, ho deciso di guardare anche il film che, sebbene sia molto bello, non riesce – secondo me – a trasmettere le stesse scioccanti emozioni del libro. Interessante, molto interessante, ciò che la Minato racconta della società giapponese che mi porta a dire che ho letto troppi pochi libri sul Giappone e devo quindi, necessariamente, recuperare.
Un consiglio: leggete giusto un paio di righe della trama, senza andare troppo oltre. Io ho fatto così e scoprire il nome del colpevole attraverso il libro e non attraverso la quarta di copertina è stato davvero moooolto meglio.

Titolo: Confessions
Autore: Kanae Minato
Editore: Giano (Neri Pozza)
Pagine: 270
Prezzo: 14,90 €
Il mio voto: 4 piume e mezzo

Trama

La rivelazione è di quelle agghiaccianti, soprattutto se a farla è una giovane professoressa che ha da poco perso la sua bambina e ad ascoltarla sono i suoi alunni, la classe alla quale Moriguchi Yuko rivolge un discorso di addio: "La mia Manami non è morta accidentalmente; è stata uccisa da qualcuno di voi". La figlia dell'insegnante di scienze aveva quattro anni quando, un mese prima della fine dell'anno scolastico alla scuola media, in una cittadina del Giappone, è stata trovata morta nella piscina dell'istituto. A causa di quello che tutti hanno ritenuto un incidente, la madre ha deciso di abbandonare per sempre il suo lavoro. Freddamente, quasi scientificamente definendoli A e B, la professoressa rende identificabili ai compagni i due ragazzi e rivela la sua scoperta di come essi abbiano premeditato e compiuto l'omicidio di una bambina indifesa. Inoltre, con altrettanta freddezza, l'insegnante comunica la sua decisione: non ha intenzione di denunciare i due assassini alla polizia. Ha invece già messo in atto una personale vendetta, atroce e immediata ma escogitata in modo che le devastanti conseguenze si manifestino lentamente, affinché i giovani criminali abbiano il tempo di pentirsi e trascorrere il resto dei loro giorni sopportando il fardello della colpa di cui si sono macchiati. Nelle settimane successive, attraverso un diario, un blog, una lettera, appare in tutta la sua spaventosa portata il perché del gesto compiuto da Nao e Shuya.  


La recensione

Riesce difficile parlare di un libro così, gli spunti di rilfessione sono numerosi e strazianti e, tra le altre cose, offre uno spaccato della società nipponica così crudo e, mi tocca ammettere, reale che scuote incredibilmente e fa accapponare la pelle.
Chi conosce il mondo giapponese, anche solo in parte, è anche a conoscenza dei tristi fenomeni che lo riguardano e che includono, purtroppo, la scarsa presenza delle figure genitoriali nella vita degli adolescenti, il rigido sistema scolastico e della scoietà e l'elevato tasso di depressione e suicidi adolescenziali. Kanae Minato racconta una tragedia e lo fa senza tralasciare una forte denuncia verso un sistema – quello giapponese, appunto – malato, guasto e perverso, fortemente volto all'individualità e quasi del tutto privo di empatia.
Confessions racconta la storia dell'omicidio di Manami, una bambina di appena quattro anni figlia della professoressa Moriguchi. La trama è molto semplice: già nel corso del primo capitolo, infatti, Kanae Minato rende noti il movente dell'omicidio, il modo in cui si è consumata la tragedia e il colpevole. È interessante che l'autrice abbia scelto di raccontare la vicenda ogni volta da un punto di vista differente, narrando gli stessi fatti – naturalmente con delle aggiunte – ora attraverso le parole di Moriguchi, ora attraverso quelle delle altre persone coinvolte nella tragedia. 
Interessante perché, insieme al punto di vista, cambia l'opinione che il lettore si è costruito di quel personaggio. Leggendo la storia vista gli occhi della madre di Manami si ha l'impressione che i fatti si siano susseguiti in un certo modo e ci si lascia influenzare dall'idea che la professoressa ha dei colpevoli. Passando al punto di vista successivo, ciò che si era immaginato cambia del tutto, insieme all'opinione che ci si era costruiti di un personaggio, colpevole incluso.
Un romanzo complesso che lancia un messaggio per certi versi allarmante. Pesante e difficile da metabolizzare, oltre che assurdamente doloroso, colpisce dritto al cuore ma anche e soprattutto alla mente. 
Al cuore perché la morte di una bambina e il dolore che prova una madre dopo una simile tragedia non è nemmeno immaginabile, soprattutto se il movente di tale tragedia risiede in un freddo e spaventosamente razionale desiderio di individualismo. E alla mente, più del cuore, perché il pensiero che tali atrocità vengano commesse da degli adolescenti scuote persino le ossa di chi legge. 
Ancor più agghiacciante e, in un certo senso, straziante è constatare quanto disastrosa sia la situazione psicologica dei giovani giapponesi. Leggendo alcuni tratti si resta interdetti, storditi come se qualcuno ci avesse appena sferzato un pungo in faccia e riesce quasi impossibile comprendere appieno come sia possibile che ragazzi di tredici anni ragionino già sulla possibilità non solo di togliere la vita ad altri, ma di toglierla a loro stessi. 
La struttura narrativa, inoltre, merita particolare attenzione non solo perché costituisce una piccola finestra sul punto di vista di ognuno dei personaggi rilevanti, ma anche perché l'intero romanzo è composto da sei lunghi monologhi. E, per ogni monologo, l'autrice utilizza un mezzo diverso: una lettera, un diario personale, una telefonata.
Bella e straziante al contempo, è certamente una lettura che fa riflettere e, per questo, mi sento di consigliarla soprattutto agli amanti della letteratura giapponese.

lunedì 22 dicembre 2014

Del perché leggo i libri brutti, atto secondo

Del perché leggo (e, di conseguenza, recensisco) i libri brutti. In molti me lo chiedono. Scrivendo il post per 40 secondi (qui) mi sono resa conto che, in effetti, non ho mai spiegato il motivo per cui lo faccio. Quando qualcuno, un impavido, mi fa questa domanda rispondo sempre a grandi linee, senza mai entrare nel dettaglio. Potrei dire, per semplificare, che un po' c'entra il masochismo, ma non è del tutto vero. 
Sì, so perfettamente che la vita è troppo breve e i libri belli così tanti che non basterebbero 100 anni per poterli leggere tutti e allora, perché perder tempo con le sòle? Il motivo è un po' complesso. 
A parte le rarissime volte in cui mi lascio prendere dallo sconsiderato ottimismo che mi si confà, la maggior parte delle volte mi approccio al libro brutto (e con ciò intendo oggettivamente brutto) con consapevolezza, convinzione, ironia e soprattutto sadismo. Tanto, voglio dire, la ricerca del titolo da leggere non è mai troppo complicata e non richiede riflessioni di alcun tipo. Cioè, al massimo le richiede postume, le riflessioni, e sono sempre di carattere esistenziale sul futuro della gente che legge quella roba, la trova bella e poi affronta il mondo. Andando a votare, per esempio. O anche solo facendo la spesa o, ancora peggio, guidando.
Anyway, il libro brutto lo si riconosce subito, è quello lì che è già brutto dalla copertina, quello il cui progetto grafico è stato fatto dalla vostra insegnante di religione delle medie, quello che ha persino il titolo brutto. Ebbene, il libro che voi non leggerete mai, nemmeno sotto tortura, per me ha un fascino inspiegabile. Vengo attirata, ipnotizzata addirittura, dal brutto. Quel brutto che presenta una tale, immensa quantità di brutto che è quasi bello. Avete presente l'effetto animalier? Non sono una sostenitrice dell'animalier, per me qualunque cosa sia leopardata, ghepardata, tigrata o giraffata (alle volte anche muccata) dovrebbe essere sequestrata e fatta sparire dalla faccia della Terra, per essere poi radunata in enormi, mostruose pile e incendiata in una notte di luna crescente.
Ma, dicevo, l'animalier ce l'avete presente? Ecco, c'è animalier e animalier, anche se io nutro antipatia anche per il giusto animalier. Quando trovate l'animalier più brutto e coatto che possiate immaginare, quella fantasia tipo ghepardo ma con sfondo lilla e macchie rosa, ad esempio, non vi trovate a guardare l'oggetto in questione con insistenza, come se ne foste ipnotizzati? Pensateci. Addirittura vi avvicinate al capo d'abbigliamento mostruoso, lo guardate per osservarlo meglio, lo toccate persino. Ecco, questo, signori miei, è il grandissimo potere del brutto. Sì sì, è il fascino che il brutto ha sulla gente dotata di buonsenso. Proprio quel tipo di fascino che vi fa domandare come sia possibile la contemporanea esistenza di entrambi, voi e l'oggetto muccato rosa shocking, sulla Terra.
E con me, che sono una persona sensibile e dal cuore puro, questo stesso potere ce lo hanno anche i libri. Sono una debole e, per questo, nella lotta – ìmpari mi tocca dire – vince il libro brutto. A quel punto devo necessariamente procurarmelo per approfondire, per capire veramente il motivo per cui entrambi ci troviamo su questo pianeta.

martedì 16 dicembre 2014

Recensione Portami a casa

Rieccomi, con un post che non sia random (strano, ma ultimamente parlo a vanvera troppo spesso). Dunque, rieccoci qui riuniti per disquisire di Portami a casa di Jonathan Tropper, edito da Garzanti e dal quale è stato tratto un film. C'è da dire che avevo immaginato tutti molto diversi da così come appaiono in carne e ossa nel trailer ma, cioè, sono i rischi del lettore. 
Terminato da qualche giorno ormai, ve ne parlo solo adesso perché... Non lo so perché. Il romanzo è carino, si legge velocemente e regala qualche sorriso, ma. Sì, c'è un punto dopo il ma. Fa Baricco in Oceano mare, avete ragione (o forse fa Baricco sempre? Non so, ho letto solo Oceano mare), è che è proprio così. È una lettura carina, leggera e simpatica ma. Come se mancasse un quid, ecco. E quel ma seguito da un punto esprime appieno la mia opinione. 
Vi spiego meglio perché.

Titolo: Portami a casa
Autore: Jonathan Tropper
Editore: Garzanti
Pagine: 364
Prezzo: 9,90 € (la cover accanto è quella del formato ebook)
Il mio voto: 4 piume meno

Trama  

Alcune famiglie possono diventare tossiche, se ci si sottopone a prolungata esposizione. E la famiglia Foxman, in particolare, può raggiungere un livello di tossicità letale. Ecco cosa sta pensando il trentenne Judd Foxman mentre, di fronte al suo piatto di salmone e patate, cerca di estraniarsi dalle urla dei nipotini. Il telefono del cognato non smette mai di squillare, la sorella non fa che scoccargli frecciatine acide, in combutta con il fratello minore, mentre la madre, stretta in un vestito troppo provocante, gli rivolge solo sguardi di commiserazione. L'unico desiderio di Judd è scappare lontano e non pensare più a tutti i guai della sua vita. Perché Judd è senza casa, senza moglie, che l'ha appena tradito con il suo capo, e ora anche senza più un padre, morto all'improvviso. Per questo è dovuto tornare a casa e non può fuggire. Le ultime volontà del padre richiedono che venga celebrata la Shiva, il periodo di lutto prescritto dalla religione ebraica: per sette giorni consecutivi tutta la famiglia dovrà riunirsi sotto lo stesso tetto. E sette giorni possono essere un tempo infinito, soprattutto se i componenti della famiglia sono tutti fuori di testa e non riescono a stare per più di ventiquattr'ore insieme senza scannarsi. Ne bastano molte meno perché la casa diventi una polveriera pronta per esplodere a causa di vecchi rancori, passioni mai sopite e segreti inconfessabili.  
La recensione 

Portami a casa, il cui titolo per l'edizione italiana poteva essere scelto in modo migliore, racconta la storia della famiglia Foxman attraverso la voce di Judd che, negli ultimi mesi, sembra aver perso tutto ciò che gli è più caro: la moglie – la quale ha intrapreso una relazione extraconiugale con il capo di Judd –, il padre – che dopo una lunga malattia è finalmente passato a miglior vita – e il lavoro (per evidenti problemi logistici).
Si ritrova così, a trent'anni suonati, non solo a non possedere più nulla ma anche a pagare l'affitto per vivere, da solo, in una casa ridicola e fatiscente.  
In occasione dei funerali del padre, Judd si reca nella casa nella quale è cresciuto e si ritrova a dover rispettare la Shiv'a, così come indicavano le utlime volontà del defunto padre.
Grazie alla Shiv'a, della durata di una settimana, la famiglia Foxman sarà costretta a riunirsi sotto lo stesso tetto e ad affrontare vecchi dissapori, a superare stupidi conflitti adolescenziali e a ricordare i bei tempi andati.
È il primo libro di Tropper che leggo e probabilmente non sarà l'ultimo. Ho molto apprezzato la semplicità con cui l'autore racconta un lutto e una vita fatta di perdite e privazioni (quella di Judd, appunto, protagonista sfigato della storia), trasformando le brutte esperienze in motivo di rinascita. 
Sui generis, ma non surreali e improbabili – come invece mi è capitato di leggoere qua e là su internet – le vicende della famiglia, i rapporti ambigui che legano un componente a un altro.
Non so la gente comune, il lettore medio, a quali famiglie è abituato ma se gli raccontassi la storia della mia di famiglia – che non ha un happy ending come in molte saghe famigliari perché, voglio dire, un romanzo deve anche intrattenere non deprimere all'ennesima potenza – direbbe anche a me che le vicende vissute sono surreali. Peccato che, nel mio caso, non possono essere improbabili.
Questo semplicemente per dire che no, le vicende narrate da Tropper non sono affatto improbabili ma sono, se vogliamo, tipiche delle famiglie numerose. Ammetto che, però, probabilmente la sensazione di improbabilità e assurdità deriva dal linguaggio utilizzato dall'autore e dalla struttura narrativa; è palese già dalle prime pagine che Tropper strizza l'occhio al cinema e, infatti, il film tratto dal libro uscirà a breve in Italia – è uscito negli Stati Uniti a settembre. A me questo aspetto, piuttosto che far apparire le situazioni strane e inverosimili, ha disturbato perché ha reso tutto meno introspettivo di quanto invece avrebbe potuto essere. Ecco il quid di cui si sente la mancanza. Un romanzo leggero, divertente e scorrevole ma che manca della profondità giusta in alcuni punti che, invece, vengono risolti frettolosamente e senza dar spazio a riflessioni più complesse.
Questo perché con l'ausilio fornito dalle immagini e dall'espressività degli attori, molti aspetti  possono non essere resi evidenti necessariamente attraverso i dialoghi o le riflessioni. Peccato, però, che per dare spazio al linguaggio e alla struttura cinematografica, Tropper si sia dimenticato che stava scrivendo un romanzo e non una scenografia e che, quindi, il lettore non avrebbe potuto rifarsi alle espressioni del volto dei personaggi.
Insomma, una lettura interessante per certi aspetti, leggera e coinvolgente ma, detto tra noi, mi aspettavo qualcosa di più che, però, non è mai arrivato. 

mercoledì 10 dicembre 2014

Sopravvivere a Più libri più liberi 2014 senza macchiarsi di omicidio ed esperire sdoppiamenti di personalità

E salve!
Sono sopravvissuta a Più libri più liberi, sebbene l'esperienza mi abbia messo a dura prova. Quest'anno mi sono recata in fiera praticamente tutti i giorni, una roba che nemmeno i più duri e i più atletici riuscirebbero a superare senza riscontrare qualche problema fisico e, credetemi, anche psichico. Fisico perché in fiera, se vuoi sederti, devi occupare abusivamente delle seggiole durante presentazioni e dibattiti ai quali magari non sei manco interessato ma, hey, è una sedia vuota quella?!
Oppure devi andare al bar, dove puoi sederti per cinque minuti esatti – prima che qualcuno ti si sieda in braccio – per consumare un orrido e bruciato caffè in barattolino (sì, esatto, sembra proprio un barattolino) di plastica.  Passare, tra l'altro, più di un paio d'ore in un luogo artificialmente illuminato, affollato e caldo crea, secondo me, una serie di problemi alla vista che causano allucinazioni, come minimo. È il motivo per cui la gente si perde dentro Ikea, pensateci. A un certo punto, probabilmente, si è convinti di essere da un'altra parte, di aver intravisto un cerbiatto sulla neve o, ancora meglio, una passaporta e invece... Invece niente, sei sempre al Palazzo dei Congressi e non riesci più a trovare il Caffè Letterario. Succede anche ai migliori. Succede anche al Lingotto, ovviamente, anche se lì le allucinazioni sono rese più pericolose dalla temperatura desertica che causa anche una forte disidratazione. 
Ma, dicevamo, un resoconto. Ho notato, con dispiacere, che rispetto agli altri anni il numero di persone che si è recata in fiera è diminuito drasticamente. Mentre le altre volte non ci si riusciva nemmeno a muovere per i corridoi, quest'anno non ho nemmeno fatto la fila per andare al bagno (e questo rappresenta forse il dato più indicativo. C'è più fila all'autogrill e il numero di bagni è pressappoco lo stesso). Questo, da un certo punto di vista, ha i suoi vantaggi ovviamente. Se c'è meno gente che sgomita e non si lava – credetemi, è pratica piuttosto comune non lavarsi e andare in giro a provocare conati di vomito alla gente – c'è meno rischio di esperire stati allucinatori e si ha più tempo per chiacchierare con gli editori. Che è, più o meno, quello che ho fatto io. Per questo è stato piacevole girare tra i banchetti, smontare completamente quello di Sur sotto lo sguardo vigile e un po' troppo attento del Sur-dipendente che, ecco, non voglio sapere cosa ha pensato (qualcosa di brutto, sono sicura, ma è stato educato e – sebbene il suo sguardo parlasse chiaro – non ha proferito parola); è stato bello saccheggiare il banchetto delle Edizioni Spartaco, dove ho prima acquistato un libro e poi, non contenta, ci son tornata per prenderne altri due; è stato interessante venire a conoscenza di un nuovo modo per gestire una fila di persone che cercano di farsi autografare il libro da Zerocalcare: nessun metodo.

mercoledì 3 dicembre 2014

A Natale in libreria, ovvero tutto ciò che non vorresti trovare sotto l'albero

È dicembre, quindi da adesso in poi verremo sommersi di post, articoli, email sui libri da acquistare a Natale e i libri da regalare. Noi, qui in casa Nereia, francamente ce ne infischiamo dei 101 libri da regalare a Natale, del miglior romance di sempre che scalda il cuore mentre fuori nevica (fa molto Natale, ammettiamolo), della ricetta dei biscotti allo zenzero a forma di fiocchi di neve, delle palle ecologiche da attaccare all'albero, del modo più natalizio che c'è per confezionare i regali, delle decorazioni bianche e rosse fai da te utilizzando solo ed esclusivamente tubetti di Rio Mare Paté e la sabbietta per lettiera.
A me del Natale non frega poi molto, l'alberello sarà un decennio che non lo faccio, il presepe ancor di più. Mia madre decise di non imbarcarsi più nell'impresa quando capì che sostituire i Re Magi con i mini sofficini e le Micro Machines per me non costituiva solo una sfida all'autorità religiosa, ma lo facevo anche perché trovavo in quel modo il presepe più colorato, originale e divertente.
Detto tra noi, preferisco la Pasqua e solo perché posso uccidermi di cioccolata senza sentirmi in colpa. Coff, dicevamo, il Natale.
Del Natale mi importa il giusto, mi piace piuttosto quello che vedo in giro. Mi piacciono le luci che colorano Roma, che è bella da mozzare il fiato sempre, ma che sotto Natale diventa incantevole. Mi piace il cielo su Roma nel mese di Dicembre che è così blu che si ha l'impressione di camminare con sopra il vuoto. Lo so che è una di quelle frasi da romanzetto alla Clare ma, credetemi, è proprio così.
Del mese di Dicembre e dell'arrivo del Natale imminente, comunque, mi piace soprattutto una cosa: le uscite in libreria. Sì sì, proprio quelle che poi vi consigliano di comprare o regalare.  Mi piacciono perché, dannazione, sono veramente oscene. Sono così oscene da rimanere impresse nella mia memoria fino al Dicembre successivo.
Perché, vedete, a Natale si cerca di sfornare quanto più è possibile per potersi accaparrare più lettori/non lettori possibili e, quindi, ci si butta in mezzo chiunque nella mischia pur di alzare qualche soldo che serva, almeno, per pagare la tipografia. Tipo questo libro qui che ci consiglia di lasciarci andare all'ammmmore e tutto verrà da sé (certo certo). E poi, va' che copertina! Lo regalerei per Natale solo per le pallette a forma di cuore made in Ikea. 
Ma non si possono vomitare sugli scaffali delle librerie solo libri ambientati a Natale con protagoniste persone che amano il Natale e che trovano l'amore solo a Natale. C'è sempre bisogno del nome grosso, quello che ti piazzo in enormi, traballanti pile all'ingresso, con un bel cartello con su scritto "NOVITÀ" in cima... Quel libro di cui, davvero, nessuno sentiva la mancanza ma che, invece, puntuale come i treni in Germania e piacevole come l'influenza gastrointestinale si palesa in libreria tra novembre e dicembre.