mercoledì 30 novembre 2016

Questione di incipit #15


Ok, cerchiamo di riprendere in mano le fila di tutta la programmazione del blog ché qua sennò va tutto allo scatafascio (e sto solo lavorando part time, se facessi un lavoro vero come andrebbe? Peggio, ve lo dico io).
Dunque, considerando che sto leggendo due libri in spagnolo – attualmente – e uno in italiano (sempre la mia amata Anne), vi posto oggi l'incipit del libro che inizierò successivamente a Anne perché, cioè, sarebbe bello mettere l'incipit di un libro in spagnolo ma me sa che lo capisco solo io e altri 3 cani che mi leggono. Quindi, ecco, non è il caso.
Sono in ritardo nella lettura di zia Anne Tyler perché, dato che vado al lavoro a piedi, la sera sono così stanca che svengo alle 22 circa, praticamente subito dopo cena. Sono pessima, lo so, ma il mio non esattamente atletico fisico deve ancora abituarsi ai dieci chilometri giornalieri.
Dopo anni che non lavoravo più la mattina, sto lentamente abituandomi a svegliarmi, colazionare, docciarmi ed essere fuori casa in 45 minuti. Immagino che mi abituerò presto anche a dosare i livelli di stanchezza e, non appena finita questa settimana, riuscirò anche a non morire sul divano con le gambe stese non appena metto piede in casa.
Il clima ottimistico ci serve perché c'ho un sacco di idee in testa e devo, DEVO, metterle in pratica – oltre al comodino pieno dei libri di cui vi ho parlato qui.
Quindi, dopo un'ardua scelta, oggi vi mostro l'incipit de Lo schiavista di Paul Beatty, pubblicato da Fazi e vincitore del Man Booker Prize 2016.

Nutro grandi, grandissime aspettative. Forse non dovrei, forse dovrei applicare il metodo San Tommaso perché, in fondo, quando qualcosa è un successone a me, alla fine, non piace. Harry Potter a parte, ovviamente.
Però non riesco a essere scettica in questo caso, non ci riesco proprio. Forse è merito dell'originalità della trama, forse della copertina, forse perché spesso i libri che vincono il Man Booker Prize o il Pulitzer finiscono per piacermi sempre... Non lo so. Fatto sta che, se qualcuno di voi qui lo ha già letto, me lo dicesse ché così sappiamo se è bello bello bello davvero oppure no.
È la storia di un uomo che, cresciuto da un padre single, durante l'infanzia si presta a diversi studi psicologici sulla razza. Il padre gli ha sempre fatto credere che i risultati di questi studi sarebbero finiti in un memoir che avrebbe risolto i loro problemi economici. Ma quando il padre viene a mancare, il protagonista si accorge che non esiste alcun memoir. Come se non bastasse, Dickens – la cittadina dove ha sempre vissuto – viene completamente cancellata dalle cartine geografiche. Comincia così la strampalata avventura di un uomo la cui folle idea è quella di ripristinare la schiavitù in America. Che dire? Che qui vi lascio l'incipit, nella traduzione di Silvia Castoldi (che ha già tradotto un bel po' di libri Fazi, tra cui quel gioiello di Olive Kitteridge).

Prologo 

So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato, incurante delle regole del mercantilismo e delle prospettive di salario minimo. Non ho mai svaligiato una casa, né rapinato un negozio di alcolici. Non mi sono mai seduto in un posto riservato agli anziani su un autobus o su un vagone della metropolitana strapieni, per poi tirare fuori il mio pene gigantesco e masturbarmi fino all’orgasmo con un’espressione depravata e un po’ avvilita sul volto. Eppure eccomi qui, nelle cupe sale della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, con l’auto, quasi per ironia della sorte, parcheggiata in divieto di sosta su Constitution Avenue, le mani ammanettate dietro la schiena, il diritto di restare in silenzio che mi ha detto addio da un bel pezzo; seduto su una sedia dall’imbottitura spessa che, proprio come questo paese, non è affatto comoda come sembra. 
Sono stato convocato tramite una busta dall’aria ufficiale col timbro «IMPORTANTE!» in grossi caratteri rossi, come l’avviso di una vincita alla lotteria, e da quando sono arrivato in questa città non ho mai smesso di stare sulle spine. 
«Gentile signore», diceva la lettera. 

«Congratulazioni, lei potrebbe aver già vinto! Il suo ricorso è stato selezionato tra centinaia di altri per un’udienza di fronte alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. Che grande onore! Le raccomandiamo caldamente di presentarsi con almeno due ore d’anticipo rispetto all’orario previsto per l’udienza, che si terrà alle ore dieci del mattino del 19 marzo, nell’anno del Signore…». Seguivano le istruzioni per raggiungere la Corte Suprema partendo dall’aeroporto, dalla stazione ferroviaria e dall’autostrada, e una serie di buoni da ritagliare per l’ingresso omaggio ad alcune attrazioni turistiche, ristoranti, bed and breakfast e simili. Non c’era firma. Solo una frase di commiato: 
Cordiali saluti, 
Il Popolo degli Stati Uniti d’America. 
Nelle intenzioni dei fondatori, Washington D.C., con le sue ampie strade, le rotonde sbalorditive, le statue di marmo, le colonne doriche e le grandi cupole, sarebbe dovuta somigliare all’antica Roma (se le vie dell’antica Roma fossero state piene di neri senzatetto, cani antiterrorismo, autobus per turisti e ciliegi in fiore). Ieri pomeriggio, come un etiope coi sandali ai piedi proveniente dalle più oscure e remote profondità delle giungle di Los Angeles, mi sono avventurato fuori dall’albergo e mi sono unito allo hajj dei bifolchi in jeans colmi di patriottismo che sfilavano lentamente davanti ai monumenti storici dell’impero. Ho contemplato con timore reverenziale il Lincoln Memorial. Se Abe l’Onesto tornasse in vita e riuscisse in qualche modo a sollevare dal trono i suoi ossuti sette metri e passa di corporatura, cosa direbbe? E cosa farebbe? Ballerebbe la break dance? Lancerebbe monetine contro il bordo del marciapiede? Leggerebbe i giornali e scoprirebbe che l’Unione da lui salvata si è trasformata in una plutocrazia disfunzionale, che il popolo da lui liberato è diventato schiavo del ritmo, del rap e dei prestiti predatori, e che al giorno d’oggi le sue capacità sarebbero più adatte a un campo di basket che alla Casa Bianca? Lì potrebbe rubare palla e partire in contropiede, tirare un barbuto canestro da tre punti, restare in posa e sparare cazzate mentre la palla scende dal retino. Il Grande Emancipatore: non puoi fermarlo, puoi solo sperare di contenerlo.
Com’era prevedibile, al Pentagono non c’è niente da fare tranne scatenare una guerra. Ai turisti è proibito perfino scattare foto con l’edificio sullo sfondo, perciò quando la famiglia vestita alla marinara, con una tradizione di quattro generazioni prima di veterani della Marina, mi ha messo in mano una fotocamera usa e getta e mi ha chiesto di seguirla a distanza e di fotografarla di nascosto mentre si metteva sull’attenti, faceva il saluto militare e poi, senza motivo apparente, alzava la mano a pugno con l’indice e il medio aperti come segno di pace, sono stato felicissimo di servire il mio paese. Al National Mall era in corso una marcia in solitario su Washington. Un ragazzo bianco si era sdraiato sull’erba, giocando con la percezione della profondità in maniera tale che l’obelisco del Washington Monument all’orizzonte sembrasse un’enorme erezione caucasica appuntita traboccante dalla cerniera abbassata dei suoi calzoni. Scherzava con i passanti, sorrideva verso gli obiettivi dei cellulari e accarezzava quel finto priapismo fotografico.

Mi piace questo incipit, così come sono sicura che mi piacerà questo libro. 
Non vedo l'ora di sistemare le mie giornate in modo decente, così da poterlo finire subitissimo e parlarvene quanto prima. Lo trovo tagliente al punto giusto, proprio il tipo di narrativa di cui sento di aver bisogno. 

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